venerdì 15 novembre 2013
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Quella delle baby-prostitute è in fondo una storia fatta di presenze troppo ingombranti e di grandi assenze. Oggetti presenti, padri assenti.Gli oggetti la fanno da padroni in queste vicende. Abbiamo visto ragazze che si fanno oggetto per possedere sempre più oggetti. L’ideologia femminista ha tanto parlato della donna-oggetto vedendone il suo riscatto nel motto programmatico "io sono mia", ma proprio qui stava l’errore interno al suo discorso, un errore logico per il quale le pur giuste istanze sociali portate avanti dal movimento non arrivavano al loro compimento: proprio quello stesso tentativo di sottrarre la donna alla condizione di oggetto la fissava paradossalmente ad essa. La donna-oggetto, così come la ragazza-oggetto, è infatti colei il cui corpo viene scisso dal rapporto, il cui corpo viene assolutizzato, ossia sciolto dalla pensabilità prima e dall’esperienza poi di una relazione benefica con un altro che cessa di essere antagonista per divenire socio. Il corpo, ab-solutus, può diventare pura merce di scambio per ottenere i soldi necessari per comprare oggetti di venerazione, telefonini, capi griffati o cocaina: l’altro sparisce dall’orizzonte, non esiste più, perde la sua individualità. I clienti infatti sono per loro natura tutti uguali. È una storia di sagome quella che leggiamo nella cronaca, non ci sono più persone né soggetti, non c’è nessun incontro né rapporto, solo un contatto a tempo e monetizzato. La prostituta stessa, che è la donna di tutti, finisce poi per essere la donna di nessuno. Nemmeno di sé. E qui intervengono le assenze. Dov’erano i padri di queste ragazze? Sappiamo che il padre è il primo uomo della propria figlia, che molto del suo futuro di donna dipende da questo primo trattamento che lui le riserva. Una figlia che non è mai stata vista come donna, come corpo sessuato animato dal suo pensiero, faticherà a pensarsi come tale. La mancata precoce esperienza di preferenza da parte di un altro – peraltro un altro così irrinunciabile come il padre – lascia spazio al compiacimento narcisistico di essere contemplati come oggetto. La componente narcisistica, che riduce l’altro da compagno benefico a contemplatore, è molto presente in questa storia, essa inoltre rappresenta una questione che si allarga all’intero mondo giovanile, con le baby-prostitute che costituiscono la perfetta realizzazione di una malevole e diffusa tentazione. È quella che potremmo definire la tirannia del mi piace. Il pollice sollevato di Facebook ne è la più clamorosa esemplificazione grafica, e non solo. Si tratta del bisogno di una continua conferma di valore da parte dell’altro, in cui tuttavia l’altro è costretto a girare attorno a chi si mette in mostra per dire quanto la trovi bella o bello (anche i maschi non si fanno mancare niente al riguardo). Il valore del soggetto è ridotto all’apprezzamento delle sue qualità più immediate, quanti più mi piace ottiene la mia foto tanto più io valgo.Dalle intercettazioni telefoniche, troppo esibite e spesso voyeuristicamente lette, emerge potente il senso di euforica eccitazione delle ragazze nelle trattative: l’idea di piacere per essere in fondo dominatrici, di tenere in pugno giovani e uomini maturi, di possedere il mondo sapendo "come gira", quando invece è il mondo con le sue ciniche teorie a possedere loro. È una brutta storia di falsi, questa. Rapporti, guadagno, possesso sono concetti tutti falsificati e ridotti a caricature. È da qui che si riparte, da un lavoro culturale nelle scuole, nelle famiglie e nella società che rimetta le cose al loro posto: il rapporto come luogo della partnership fra soggetti, il guadagno come ciò che arriva per mezzo di un altro per la produzione di un sovrappiù reciprocamente soddisfacente, il possesso come usufrutto del reale in cui il bene goduto non diventa esclusivo, ma viene lasciato nella sua integrità perché altri ne possano godere a loro volta.
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