sabato 7 settembre 2013
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Forse ognuno di quelli che questa sera andranno in piazza San Pietro, o da lontano si uniranno alla preghiera del Papa, ha a casa un amico, o un fratello, che in questi giorni gli ha detto: «Bel gesto pregare per la pace, ma a cosa serve? Credi davvero che la vostra preghiera avrà qualche effetto? In Siria piovono bombe, e si giustiziano gli avversari, e si può morire soffocati dai gas. Le città sono distrutte, le fosse comuni piene, e colonne di profughi fuggono da Damasco. E tu, vai a pregare a San Pietro? Forse che le vostre preghiere e digiuni hanno la forza deflagrante dei missili a lunga gittata, o la potenza schiacciante dei carri armati? Che arma è, questa vostra preghiera, se non il rifugio dei deboli, la consolazione degli imbelli, e una illusione da anime pie?»Forse non pochi di quanti stasera saranno a San Pietro avranno viaggiato verso Roma con questa eco di parole in testa. Forse a qualcuno ne resta addosso il dubbio che, sì, sia bello e grande il ritrovarsi dentro al Colonnato, in tanti, a domandare pace; e che però il mondo segua altre logiche, e la guerra proceda per le sue strade, trionfante, mentre i cristiani e gli uomini di buona volontà si affidano alla "povera" arma che è la preghiera. Perché viviamo dentro un tessuto culturale per il quale la preghiera è quel parlare sommesso con un Dio che non si vede, in solitudine, la sera, oppure il coro del rosario di vecchie donne chine davanti a un lutto. La preghiera insomma, agli occhi del mondo, è la povera arma di chi non ha altra speranza di sollievo o di giustizia. Ma il Papa all’Angelus, domenica, ha definito la preghiera di questa sera "un grido", «grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità». E un grido corale che da un angolo all’altro del mondo riunisce milioni di uomini non sembra un gesto debole; pure nel suo levarsi disarmato ha, invece, in sé, qualcosa di possente  e di antico. L’essenza della preghiera, è la domanda. Domanda a Dio perché ascolti, e conceda. La stessa pace è qualcosa che gli uomini da soli non sanno darsi; benché da millenni si affannino a fabbricare sistemi "giusti", ogni volta qualcosa si incrina e risorge fra noi come una originaria violenza.Proprio su questo crinale sta il gesto di preghiera e digiuno di oggi: con negli occhi i morti bambini di Damasco e di cento altre guerre, e le facce delle madri e degli orfani e dei profughi in cammino, una moltitudine di uomini domanda a Dio la pace. Ben sapendo che le armi non taceranno d’incanto in Siria, e continueranno altrove il loro alacre lavoro di morte. Perché il mondo, dal suo primo inizio, è in battaglia, ansioso di pace ma marchiato da una ferita profonda. Una parola di don Giussani esprime bene cosa sia, in questa eterna lotta, la preghiera: «La preghiera diventi, sull’orlo del nostro orizzonte, l’avamposto, l’avamposto della nostra umanità, della nostra umanità in battaglia, perché la condizione della battaglia è inevitabile e inesorabile, anzi, per il Signore è stata la croce». L’avamposto della nostra umanità in battaglia; a mani nude, senza fucili, e tuttavia dentro a una tensione autenticamente epica. Perchè è un agone questo fronte su cui in tanti, per la Siria e per altre guerre, si schierano stasera. Quante divisioni ha il Papa? Nessuna. Solo la forza, con sé, di questa grande corale domanda; dell’umiltà di uomini che sanno di non potersi salvare da soli. E quindi implorano, con le facce angeliche dei bambini soffocati a Damasco ancora negli occhi, la grazia di un’alba di pace.
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