giovedì 15 dicembre 2011
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A Torino, pochi giorni fa, il rogo al campo nomadi che ha il sapore di un pogrom: un centinaio di giovani che assalta le baracche al grido «gli zingari devono bruciare», con la pretesa di vendicare una violenza sessuale poi rivelatasi inesistente. L’altro ieri, a Firenze, un uomo che spara e uccide, non all’impazzata, ma mirando con precisione solo su uomini neri, come su questo giornale ci ha ricordato Marina Corradi. Sono i segni di una «involuzione antropologica mortale», che ci indicano – come scrive su il manifesto uno dei più intelligenti osservatori della nostra società come Marco Revelli – che le nostre città sono «prive di anticorpi contro i nuovi mostri che emergono dalle viscere provate dalla crisi»? Penso che al pessimismo della ragione di Revelli dobbiamo rispondere con l’ottimismo della volontà. Affermando che gli anticorpi ci sono: come ci ricorda l’indignazione diffusa a questi fatti, il non rassegnarsi agli umori di pancia. A cominciare dalla risposta istituzionale che, di fronte ad una denuncia calunniosa, non vi si è adagiata, ma ha saputo smontarla, con un’indagine serrata nel giro di poche ore. Ma la risposta delle istituzioni – qui Revelli ha ragione – non basta: bisogna ricucire un tessuto di valori comuni. Ricordando che la storia ci insegna che anche i valori, se privati dal senso di umanità, possono generare mostri. È accaduto in passato, ogni volta che i valori si sono elevati a monumenti e son stati venerati nella loro assolutezza. Così l’amor di patria risorgimentale degenerò nel nazionalismo che umiliava le altre patrie. Ed oggi, il bisogno di difesa della propria identità, della propria madre terra, della propria gente, persino i sentimenti di solidarietà verso chi subisce un sopruso, possono, se rinchiusi in un recinto assediato, sprigionare umori razzisti. Ma se compresi e coltivati con cura possono diventare un ingrediente prezioso di una società aperta e ricca delle diversità di ciascuno. Sempre c’è, alla radice di queste degenerazioni, «l’eclisse di umanità» di cui ci parla Marina Corradi, la mancanza di rispetto della dignità della persona: che urta contro ogni umanesimo. Contro la sensibilità religiosa di un cristiano; contro il rispetto dell’uomo della cultura socialista; contro la sensibilità laica che sottende la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; contro quella «voce segreta che è in fondo alla nostra coscienza» di cui ci parlava Calamandrei e che nutre tutte queste diverse sensibilità. Abbiamo bisogno che queste sensibilità si incontrino di nuovo, come accadde tra il 1946 e il 1948, ai tempi della Costituente. Abbiamo, nelle tradizioni culturali e religiose del nostro popolo, la linfa vitale per costruire questo incontro, a cominciare dalla scrittura di buone leggi, che sottraggano il tema dell’immigrazione al terreno degli scontri ideologici. Leggi che, sulla base di due solidi pilastri – una politica di generosa accoglienza, accompagnata da un convinto contrasto alla criminalità – sappiano disegnare una condivisione degli orizzonti a cui tendere, una cornice entro cui politiche di destra e di sinistra possano confrontarsi e proporre soluzioni diverse.
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