martedì 6 gennaio 2015
«Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia». 
di Alessandro D'Avenia
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​«Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia». Quando la sonda Rosetta ha compiuto il suo inseguimento della cometa ci siamo emozionati. Nel silenzio dello spazio qualcosa creato dall’uomo si poggiava, grazie a calcoli resi possibili dalla logica che permea l’universo, su qualcosa che l’uomo non ha creato per studiarlo da vicino e magari rimanere sorpreso scoprendo i segni di una vita che andiamo cercando in un cielo di corpi stellari, imitando forse la nostra ricerca, più o meno consapevole, di vita in ben altro cielo. Una cometa, come quella che forse un giorno passò in cielo in coincidenza con la nascita di un bambino e fece da segnaletica ad un gruppo di scienziati del tempo, che volevano studiare quella stella da vicino, come noi. Con calcoli precisi la trovarono. Mi ha sempre affascinato che il Bambino-Dio nato in un posto rabberciato alla meglio è contemporaneamente reperibile grazie a calcoli e osservazioni astronomiche da professionisti del settore. Dio si fa trovare sempre da chi fa bene il proprio lavoro: come perfezionamento del pezzo di mondo che gli è affidato, come perfezionamento delle persone con cui lo svolge, come perfezionamento della propria capacità di stare al mondo. Chi cerca la stella nel proprio lavoro, trova la Stella nel proprio lavoro. Alcuni esegeti dicono che la stella in cielo non c’è mai stata e ci si riferisce simbolicamente alla stella che è Cristo, stella di Davide. Di questa idea era l’astronomo Tycho Brahe (1546-1601), che sosteneva la stella non fosse un fenomeno naturale. Ma gli rispose uno più grande di lui, Johannes Keplero in persona (1571-1630), che cercò di identificarla prima con una Nova (uno stadio della vita di una stella che emana fortissima luminosità per alcuni giorni) e poi con una congiunzione planetaria avvenuta il 4 a.C. o l’1 a.C. (quando due o più pianeti, appaiono vicini tra loro e sommano la loro luminosità, anche se si tratta solo di un effetto di prospettiva). Keplero scoprì il fenomeno durante il Natale del 1603: si trattava della congiunzione tra Giove, Saturno e Marte, nella costellazione dei Pesci. Questa congiunzione avviene ogni 800 anni circa: tutto tornava. I magi avevano visto tre pianeti tra loro vicini sommare le loro luminosità in una triade. Nella sua opera De die natiali Iesu Christi escluse che si trattasse di una cometa (un corpo che periodicamente si avvicina al Sole e genera quindi una coda di luce per combustione per poi "spegnersi" quando è lontano, registrato nel 12-11 a.C, la famosa cometa di Haley). Scienziati e storiografi dibattono ancora, ma l’ipotesi di Keplero sulle congiunzioni planetarie è la più accreditata e compatibile col viaggio altrimenti non giustificato dei Magi (una Nova o una cometa non erano eventi così rari per un osservatore del cielo). Comunque sia, il dato ineludibile è la presenza del Corpo Celeste: il Bambino-Dio. Nell’uno e nell’altro caso, per i Magi, c’è una chiamata scaturita proprio a partire dalla propria vicenda umana e professionale. I talenti che abbiamo sono il terreno della visione della stella e della la Stella, l’alfabeto che Dio ci presta per intrattenere un dialogo con lui: l’artista con i suoi colori, il panettiere con il suo impasto, il professore con la sua lezione.«Dio ci ha chiamati con inequivocabile chiarezza. Come i Magi, anche noi abbiamo scoperto nel cielo dell’anima la stella che ci guida e illumina, il dono di un impulso efficace per giungere alla pienezza della carità, convinti che è necessario – e non solo possibile – raggiungere la santità anche in mezzo alle attività professionali, sociali. La vocazione cristiana non ci toglie dal nostro posto» (San J. Escrivá, È Gesù che passa, nn. 32-33). Non credo sia un caso che il gesto del Bambino-Dio dipinto da Gentile da Fabriano sia quello di toccare la testa pelata dello scienziato che si inchina di fronte alla Stella alla quale lo ha portato la stella da lui riconosciuta nelle osservazioni astronomiche, nei calcoli astrali, nella interpretazione dei testi. Il lavoro è mezzo, mai fine: serve, se fatto bene, ad ampliare la gloria di Dio nel creato, compierne i semi potenziali, portarne più rapidamente a perfezione l’indomabile bellezza e polifonia. Chi lavora dimentico che la Creazione è un dono, sì da sviluppare, ma anche da difendere, invece di servire la vita finisce con il distruggerla. Chi lavora male non fa altro che rallentare questa gloria e inserire tristezza nel mondo, al contrario di chi vi inocula gioia proprio attraverso un lavoro ben fatto. Come quando gioiamo per un piatto ben cucinato, una lezione appassionante, un capolavoro artistico. Tutto il nostro lavoro ben fatto, pur con tutta la fatica che comporta, cerca e canta la gioia e la gloria di quella carezza di Dio, senza la quale diventa l’ennesima torre di Babele. A quella carezza siamo chiamati da domani, quando tutto ricomincia.
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