venerdì 30 marzo 2012
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Le esplosioni e gli attentati di questi giorni a Baghdad sono serviti ai terroristi per dimostrare di essere ancora attivi in Iraq; al primo ministro al-Maliki – che temeva molto di peggio – a documentare come non si possa abbassare la guardia; ai capi degli stati arabi riunitisi per la prima volta nell’Iraq post Saddam che, nonostante i dollari profusi per rifare il belletto alla città, Baghdad è sempre Baghdad.Ma sono ben altre le violenze e i fuochi che catalizzano l’attenzione di questo summit della Lega Araba, primo fra tutti quello siriano. Per al-Maliki tuttavia è già un successo il fatto stesso di essere riuscito a tenere questo incontro, già annullato lo scorso anno. Paesi come l’Arabia Saudita e le altre monarchie sunnite del Golfo non hanno mai celato la loro irriducibile ostilità al suo governo e all’idea stessa che in Iraq la maggioranza sciita oggi possa esprimere la maggioranza politica, dopo decenni di dominio della minoranza sunnita. Averli come ospiti è, in fondo, un’accettazione evidente del "nuovo" Iraq, per quanto indigesto possa risultare.Ma è difficile che ciò basti a noi per considerare un successo questo incontro: il sangue che scorre in Bahrein e in Siria, il precario dopoguerra libico, le incertezze della transizione in Egitto, Tunisia e Yemen impongono al mondo arabo uno sforzo di mediazione e sintesi che esso non sembra in grado di compiere. A osservare bene, nella capitale irachena sono in questi giorni riuniti diversi mondi arabi, non uno soltanto: quelli della conservazione, con regimi aggrappati al passato e che rifiutano il cambiamento; vi sono i nuovi governi – oggetti ancora misteriosi e in divenire – e vi sono poi gli stati petroliferi del Golfo, forti delle loro ricchezze e con agende politiche estremamente ambiziose. Arabia Saudita e Qatar hanno non solo accolto, ma anche favorito il cambiamento nella regione, inondando il Medio Oriente di dollari destinati ai movimenti islamisti e salafiti. E sono stati loro ad armare per primi i ribelli al crudele regime di Assad in Siria. Che sia una politica saggia, nel lungo termine, è difficile da poter credere, dato che si infiammano in tal modo le differenze religiose e culturali e si aggrava il settarismo invece di ridurlo; ma è la scommessa fatta da queste monarchie per rafforzare la loro influenza nella regione e soprattutto per indebolire il ruolo geopolitico dell’arci nemico dei sauditi, la Repubblica islamica dell’Iran.E Teheran in fondo è il convitato di pietra a questa riunione: l’unico alleato rimasto a Damasco e il paese con la maggiore influenza in Iraq. Per di più, dopo le tensioni politiche interne di questi ultimi mesi, al-Maliki ha ricercato il sostegno dei gruppi sciiti più radicali e maggiormente ostili alla minoranza sunnita per mantenersi al potere, indispettendo ulteriormente Riyad e gli altri paesi arabi sunniti, che lo considerano ingiustamente poco più di un pupazzo nelle mani degli iraniani. Sullo sfondo si profila poi la futura battaglia per le quote di produzione petrolifera assegnate a ogni paese: l’Iraq marcia verso un aumento spettacolare della propria produzione giornaliera, dopo decenni di sotto-produzione per le guerre e gli embarghi. Un altro motivo di contesa con i sauditi, che può spingere a radicalizzare i contrasti piuttosto che a sopirli.In questo clima, è difficile che dal vertice escano decisioni che non siano solo formali o meramente retoriche. O forse proprio l’essere a Baghdad, capitale che ha vissuto anni di violenze inarrestabili e di anarchia dopo la caduta di Saddam, può far riflettere le diverse anime del mondo arabo su quanto sia facile soffiare sul fuoco della rivolta e del settarismo e quanto difficile domarne poi le fiamme.
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