giovedì 18 settembre 2014
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Premessa essenziale: stiamo discutendo di un emendamento alla legge delega di riforma del mercato del lavoro. I giochi politici sono ancora aperti e le indicazioni in parte generiche. Passerà almeno un anno prima di poter ragionare su un testo di legge effettivo, sul quale sviluppare delle valutazioni che non siano impressionistiche. Chiarito questo, se realmente alla fine dell’iter legislativo si sarà messo mano all’intera normativa sul lavoro – compreso il tema delle tutele in caso di licenziamento, con il reintegro sostituito da un indennizzo monetario di valore crescente – ci troveremo di fronte a un cambiamento fondamentale, culturale assai prima che economico.L’idea alla base dell’emendamento di arrivare a un nuovo Codice unico semplificato del lavoro è infatti anzitutto la presa d’atto che il mondo è cambiato e il sistema economico-produttivo è ormai lontano anni luce da quello ford-taylorista su cui era stato disegnato, quasi 45 anni fa, lo Statuto dei lavoratori. Soprattutto, segna la fine di un’idea, quella che studiosi come Pietro Ichino definiscono la concezione "proprietaria" del lavoro, secondo la quale quando un lavoratore riesce a conquistare un posto, quello in sostanza gli appartiene. A vita. Con la conseguenza che da noi si è sempre difeso non tanto il lavoratore, quanto il legame tra il singolo occupato e quell’impiego. Con il reintegro obbligatorio nel caso di un licenziamento che il giudice ritiene senza giusta causa (spesso solo perché, in quella zona, per il licenziato sarebbe difficile trovarne uno nuovo). Ma non di meno costruendo un sistema di ammortizzatori sociali che ha relegato centinaia di migliaia di lavoratori nel limbo della cassa integrazione per anni, anziché favorirne l’aggiornamento e il ricollocamento in altre aziende. L’intero nostro sistema produttivo – già schiacciato dall’eccessivo carico fiscale e dalla burocrazia – ha risentito di questa rigidità, cercando ogni possibile via di fuga, fosse essa il restare al di sotto della soglia dimensionale dei 15 dipendenti o il ricorrere a contratti senza tutele. Determinando così un graduale degrado del nostro mercato del lavoro, a danno anzitutto dei lavoratori stessi, dei giovani più di tutti.Il nuovo Codice semplificato che dovrebbe essere emanato ha dunque l’ambizione di disegnare un sistema di regole generali e flessibili meglio rispondenti al nuovo scenario globale. Ma deve portare con sé anche un altro cambiamento: porre davvero al centro la persona, il nuovo soggetto intorno al quale costruire tutele reali e universali, politiche attive, in grado di rendere il lavoratore più forte sul mercato, maggiormente capace di reagire ai mutamenti di scenario, più "padrone" del proprio destino che non mero dipendente. Per farlo occorre che la delega porti a compimento davvero tutto ciò che promette in termini normativi, ma soprattutto di più efficaci ammortizzatori sociali e servizi per l’impiego. Su questo – il mezzo disastro della Garanzia giovani purtroppo lo dimostra – siamo all’anno zero.Nessuno si illuda, però: il superamento delle rigidità del passato, articolo 18 compreso, rappresenta solo la precondizione di un cambiamento necessario più profondo. Il lavoro del futuro sarà sempre meno somigliante a quello dipendente delle fabbriche manifatturiere che abbiamo conosciuto finora e sempre più simile all’interagire di soggetti diversi, in luoghi differenti, di volta in volta impegnati per un progetto da realizzare (un prodotto che magari sarà sfornato da una stampante 3D senza bisogno di essere "assemblato" da operai o un servizio offerto in Rete). Se non si assume finalmente una diversa idea di fare impresa, di cooperazione tra i soggetti coinvolti, di interazione con la società esterna, di partecipazione, allora, non avremo dato che una risposta per l’ennesima volta parziale a un mutamento, quello del lavoro e dell’economia, oggettivamente epocale.P.S. È fondamentale che nel dibattito politico e sociale sulla riforma non si ripetano i tragici errori del passato. Tutte le posizioni sono legittime e hanno diritto di venire rappresentate. Ma nessuno si azzardi a indicare l’una o l’altra persona come "nemico del popolo" o "traditore dei lavoratori". Il prezzo di sangue pagato da studiosi come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi all’impegno per il cambiamento del nostro Paese, è già stato troppo alto, insopportabilmente alto.
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