martedì 11 ottobre 2011
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Ci siamo ormai assuefatti alle immagini di violenze, scontri e disordini che negli ultimi mesi si sono sovrapposte a quelle già sbiadite della primavera araba. Ma quanto accaduto negli ultimi due giorni al Cairo ci ha riportato, come in un tragico flash-back, alla sanguinosa repressione che caratterizzò l’inizio della rivolta di piazza Tahrir, con gli sgherri di Mubarak che colpivano e uccidevano i giovani dimostranti.La protesta di migliaia di cristiani copti scesi in piazza domenica scorsa dopo l’incendio e la distruzione dell’ennesima chiesa è finita in una strage, tanto più assurda e scandalosa quanto più evidente è il ruolo giocato dall’esercito che dovrebbe invece garantire la pacifica transizione alla democrazia. La ricostruzione dei fatti è ancora incerta e confusa, gli scontri con le forze dell’ordine sarebbero stati causati da infiltrati e baltajeh, criminali al soldo del passato regime e professionisti della violenza di piazza. Ma resta il fatto di una durissima repressione da parte delle truppe che rispondono ai comandi della giunta militare di Tantawi, l’uomo forte che ha assunto la temporanea guida del Paese dopo la caduta di Mubarak.Ha probabilmente qualche ragione il premier Sharaf nel puntare il dito contro «gli oscuri istigatori del caos, dentro e fuori l’Egitto». Ma ha torto nell’escludere «la tensione tra musulmani e cristiani» come la ragione principale degli ultimi fatti di sangue.No, non è proprio possibile chiudere gli occhi di fronte alla lunga scìa di orrore e di morte che ha segnato in questi ultimi mesi la comunità copta d’Egitto, la più vasta minoranza cristiana di tutto il Medio Oriente. Soggetta a discriminazioni, minacce e violenze da molto tempo, colpita al cuore dall’attentato sanguinoso d’inizio anno ad Alessandria, è entrata ancor più nel mirino degli estremisti islamici dopo la rivoluzione di febbraio.I copti vivono in una situazione paradossale: in giro per il Cairo si possono ancora vedere i simboli della croce e della mezzaluna intersecati tra loro, a testimoniare l’unità di cristiani e musulmani. Uno slogan che è risuonato anche l’altra sera in piazza Tahrir, mentre a pochi passi sul lungonilo, di fronte alla sede della tv, decine di dimostranti copti morivano negli scontri con l’esercito. Le speranze di una nuova era, fondata sulla tolleranza civile e sulla fratellanza di chi professa diverse fedi religiose, vengono tradite ogni giorno per opera degli integralisti islamici, vecchi e nuovi gruppi estremisti che teorizzano la sottomissione dei cristiani e la praticano in modo arrogante, violento e quasi sempre impunito.«Nulla è stato fatto per risolvere i problemi della comunità cristiana», è la denuncia sollevata ieri da Shenuda III, la più alta autorità dei copti d’Egitto. Restano in vigore le restrittive norme che riguardano la possibilità di costruire o ristrutturare le chiese, viene continuamente rinviata l’approvazione della legge contro le discriminazioni religiose, e soprattutto non si pone alcun argine all’odio anti-cristiano che dilaga nell’Alto Egitto e stringe le comunità dei copti nella morsa della paura. L’impressione è che la giunta militare al potere tema d’inimicarsi non solo i Fratelli musulmani, dati per vincenti alle prossime elezioni parlamentari del 28 novembre, ma anche le frange più estremiste dell’islam politico, a cominciare dai salafiti tornati prepotentemente sulla scena pubblica. Ma i cristiani non si rassegnano, non si piegano al ricatto e non si chiudono nel silenzio. La rivoluzione incompiuta li vede protagonisti: perché la libertà religiosa è la cartina di tornasole di tutte le conquiste democratiche sognate dalle piazze arabe.
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