sabato 30 maggio 2015
Verso le Regionali: i rischi di un partito «vecchio», l'alternativa che incalza. (A. Celletti)
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Regionali 2015. Come non concentrarsi sul Pd e sul suo gran capo? C’è uno scarto profondo ed evidente tra la spinta di innovazione che Matteo Renzi ha garantito al governo e quella che è riuscito a trasferire nel partito. Sul territorio non c’è stata 'rottamazione', non c’è stato cambiamento; il premier-segretario ha messo la testa su crescita e occupazione, su riforme istituzionali e riforma della scuola, e non ha inciso sulla macchina-partito che ha saputo conquistare e che l’ha portato a Palazzo Chigi. Non ha 'costruito' classe dirigente nuova e di qualità, non ha messo la testa sulle liste per le Regionali e così, anche per questo, e forse soprattutto per questo, lunedì potrebbe suonare per il Pd un primo campanello d’allarme. Nessuno immagina una sconfitta di Renzi. Nessuno crede all’ipotesi del «4 a 3», ventilata proprio dal presidente del Consiglio, e che sembra più una scelta per motivare l’elettorato addormentato del Pd e scatenare il possibile 'voto utile', che una reale paura. Ma più di un indizio fa pensare che il risultato dei Democratici potrebbe essere ben diverso dal 41% delle ultime europee. Perché le liste civiche avranno un peso. Ma soprattutto perché il leader che trionfò il 25 maggio di un anno fa era un Renzi nuovo di zecca; ora, la spinta è calata, la 'rottamazione' si è interrotta e nelle Regioni ha prevalso la continuità. Questo è il problema, per lui e per il Pd. Potremmo fare un gioco. Chiudere gli occhi e chiederci: quali sarebbero stati i candidati di un Pd senza Renzi in questa tornata elettorale? Esattamente quelli che sono in campo. In Veneto, Alessandra Moretti già portavoce (una dei tre prescelti) di Pier Luigi Bersani alle politiche del 2013. Scendiamo lungo l’Italia. In Toscana c’era Enrico Rossi (una vita prima nel Pci, poi nei Ds e quindi nel Pd) ed Enrico Rossi c’è. In Umbria Catiuscia Marini, storica dalemiana, corre per la riconferma. Nelle Marche è in campo Luca Ceriscioli, ex sindaco di Pesaro che è da sempre roccaforte bersaniana. In Puglia c’è Michele Emiliano: nel 2011 Bersani lo voleva presidente dell’Anci, ma venne sconfitto da Graziano Del Rio, il candidato di Matteo Renzi. A parte Raffaella Paita, in Liguria (e di lei parleremo poi), non c’è un vero 'candidato del premier'; sono tutti candidati figli di compromessi. E il compromesso che farà pagare al Pd il costo più alto è quello su Vincenzo De Luca, in Campania. I rischi che corre il partito di maggioranza relativa sono evidenti.  Ingigantiti dalla vicenda degli 'impresentabili' e, appunto, dal caso De Luca che potrebbero dare ulteriore forza alla pattuglia del Movimento Cinque Stelle. Enfatizzati, ancora una volta, da un astensionismo boom che potrebbe far pagare il prezzo più alto proprio a Renzi, oltre che a un Silvio Berlusconi senza più forza propulsiva.   È stata una campagna elettorale stanca, senza sprint, senza motivazioni, e il fatto che si voti per sette Regioni non aiuta. Le nostre Regioni hanno conosciuto ritardi, insufficienze, pagine ingloriose. Gli scandali legati a rimborsi gonfiati e a sottrazioni varie di risorse pubbliche hanno lasciato il segno nell’opinione pubblica, in termini di disaffezione e di credibilità perduta. Le Regioni sono percepite più che altro come centri di potere fini a se stessi. E paradossalmente la riforma del Titolo V - votata di forza dal centrosinistra nel 2001 - ha peggiorato le cose, rendendo confusi limiti di competenza che erano stati chiari e accrescendo le potestà regionali rispetto a quelle dello Stato centrale. Le Regioni hanno prodotto più di 20mila ulteriori leggi, molte delle quali 'invasive' (o forse no). Fatto sta che un terzo dei ricorsi pendenti davanti alla Corte Costituzionale riguarda cause e conflitti d’attribuzione fra Regioni e Stato.  Il rapporto coi cittadini non è migliorato di certo, insomma. Basta parlare di sanità, che in fondo rappresenta i 3/4 del bilancio per molte Regioni. In questa campagna elettorale poco si è sentito discutere di come i candidati governatori intendano realizzare i 2-3 miliardi di risparmi di spesa previsti dalla Legge di stabilità. Eppure due delle sette Regioni dove si vota (Puglia e Campania, che per di più è anche commissariata) sono già sottoposte a piani di rientro. Il rischio è che i cittadini se ne accorgano - e ne paghino le conseguenze - solo quando le decisioni non prese si tradurranno in ulteriori aumenti dell’addizionale Irpef.  Lunedì si tireranno le somme. E si guarderanno principalmente la Campania e la Liguria: una sconfitta del Pd anche in una sola di queste due Regioni vorrebbe dire per Renzi un colpo duro.  Nel mirino c’è Raffaella Paita la più renziana tra i sette candidati governatori di centrosinistra. E lì, in Liguria, si è giocata una partita vera. Si è mosso Cofferati (che non ha digerito né accettato la sconfitta nelle primarie, sbattendo la porta del Pd), si è diviso il partitone stesso. Uno strappo vero e doloroso: new labour contro old labour. Paita potrebbe vincere nonostante tutto, ma che significato avrebbe un’affermazione stentata del Pd? Che cosa vorrebbe dire non avere una maggioranza in Consiglio regionale? Ecco avanzare minacciosi i soliti fantasmi: una minoranza Pd che rema contro, un Movimento Cinque Stelle e una Lega che crescono. Grillo (ma forse sarebbe più giusto dire Di Maio e Di Battista e un gruppone di giovani che vuole dimostrare di esserci anche senza la spinta del leader carismatico) provando a cavalcare la voglia di legalità (o il neo giustizialismo) che cresce nel Paese. Salvini soffiando su insicurezze e paure e sul fastidio verso un’Europa che sul’immigrazione e sulla crescita pare incapace di archiviare la stagione degli egoismi.   Proviamo ancora a giocare e a riflettere su due risultati estremi. Il 6 a 1 (con Renzi che perde solo il Veneto) vorrebbe dire l’azzeramento della rinata Forza Italia e aprirebbe il tema della ricostruzione dell’area concretamente alternativa al nuovo Pd. Forse - come sogna ancora Angelino Alfano - un’area di centrodestra, che però si mostra frammentata come non mai e a serio rischio di deriva lepenista. Forse anche un’area a guida Cinque Stelle, il Movimento sembra infatti aver capito più degli altri quanto conti arrivare secondi con la nuova legge elettorale. Il 4 a 3 (ma probabilmente anche il 5 a 2), invece, aprirebbe un confronto vero nel Pd. Berlusconi esagera quando ipotizza crisi di governo.  E anche se una sconfitta alle Regionali fu fatale sia a D’Alema nel 2000 sia proprio all’ex Cavaliere nel 2005, oggi non vi vedono i fantasmi di una crisi di governo: in Italia un governo cade quando ce n’è un altro pronto a prenderne il posto. E allora a un eventuale passo falso del Pd potrebbe solo seguire una decisa riorganizzazione del partito. Anche perché l’Italicum funzionerà, se funzioneranno i partiti. La nuova legge - checché se ne dica - è chiara: il favorito Pd potrebbe contare su 340 deputati ma di questi 240 verrebbero eletti con la preferenza (anzi con le preferenze uomo/ donna). Se non c’è un partito vero, ma una federazione di bande in guerra tra di loro, si governa male; anzi non si governa. Renzi ha portato al governo ventate di novità. Ha 'inventato' come nuovo ceto dirigente Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marianna Madia, la stessa Federica Mogherini, ora Lady Pesc a Bruxelles. Lo ha fatto anche emarginando risorse preziose, un nome per tutti: Enrico Letta. Adesso però, comunque vada, è alla sfida del partito. Deve arricchirlo sia con volti nuovi sia valorizzando competenze di qualità, deve anche accettare il rischio e l’opportunità di schierare altre figure svettanti. Uno spot ha colpito e interrogato. Matteo Renzi e Alessandra Moretti sono seduti in auto. La Candidata racconta il Veneto: le emergenze, le priorità. Il premier ascolta e guida. Il messaggio subliminale è chiaro: votate lei, ma al volante ci sono io. Non basterà per vincere in Veneto e nemmeno per ricostruire il partito.
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