mercoledì 27 gennaio 2016
Verso il forum di Parigi per il bando alla maternità surrogata. «Abolizione universale» l’obiettivo di petizioni e appelli.
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Tre ore per una rivoluzione. Simbolica finché si vuole, ma con tutte le potenzialità per segnare un punto di svolta in un certo modo di intendere la genitorialità e la filiazione al tempo dei 'diritti riproduttivi' e della tecnoscienza applicata a soddisfarli. Le «Assise per l’abolizione universale della maternità surrogata», in programma martedì prossimo all’Assemblea nazionale di Parigi, impegneranno per meno di un pomeriggio – dalle 16.30 alle 19.30 – intellettuali, politici, attiviste per i diritti civili, femministe, studiose dell’emancipazione della donna. Poco tempo per un’iniziativa così solenne nel titolo e ambiziosa negli obiettivi? Il peso di questa manifestazione si misura nell’intenzione dichiarata di «rendere visibile l’impegno comune a combattere l’ingiustizia di una pratica sociale che lede i diritti fondamentali dell’essere umano». A ben vedere proprio l’essenzialità del programma rivela il livello di convinzione e compattezza cui è giunto un movimento assai attivo in Francia ma che visto dall’Italia rischia di sfuggirci, impegnati come siamo a discutere di uteri in affitto quasi esclusivamente come fenomeno subordinato al nodo della controversa legge sulle unioni civili. Il movimento culturale che in questo momento ha in Parigi il suo epicentro e negli Stati Uniti una sponda in pieno fermento ha il cuore pulsante proprio nella consapevolezza ormai chiarissima in numerose e variegate espressioni della società civile che il ricorso a donne pagate un pugno di dollari, euro o rupie per far loro incubare i figli che non si possono o non si vogliono avere in proprio è una violazione insopportabile della dignità femminile, una forma odiosa di riduzione in schiavitù, un’umiliazione della maternità ridotta a forma di produzione, col grembo materno declassato a incubatore di beni altrui. A dirlo non sono espressioni del mondo cattolico: le tre sigle che firmano l’invito alle Assise del 2 febbraio nella sala Victor Hugo di rue de l’Université 101 sono il Cdac (Collettivo diritti delle donne, guidato da Maya Surduts e Nora Tenenbaum), il Clf (Coordinamento lesbiche francese, sotto la conduzione di Jocelyne Fildard e Catherine Morin Le Sech) e il Corp (Collettivo per il rispetto delle persone, capitanato dalla leader femminista Sylviane Agacinski, vera mente dell’operazione), per una proposta che nasce aperta a tutti. Non è certo intenzione di chi ha promosso la raccolta di firme che accompagna la manifestazione di tagliar fuori qualcuno dal sostegno operativo e morale alla «Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata» che sarà sottoscritta da tutti i presenti a Parigi e che è già aperta alle adesioni online (http://abolition-gpa.org/signer-la-charte). Per le promotrici del forum ospitato dal Parlamento francese – un dato ambientale più che significativo – i risvolti etici e commerciali di questo fenomeno che oltrepassa i confini degli Stati e assume dimensione globale impongono una reazione determinata da parte della comunità internazionale. Per questo dalla giornata parigina si intende uscire con un’iniziativa condivisa per spingere i governi e le istituzioni sovranazionali (Nazioni Unite e Unione Europea in testa), anche grazie a un’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, a mettere al bando la surrogazione di maternità equiparandola a crimini oggi perseguiti a prescindere dal fatto che qualche Paese li tolleri. Ormai infatti è chiaro che dovunque la maternità surrogata è proibita dalla legge – Italia, Francia, Spagna e Germania, tra le principali nazioni europee – lo Stato dispone di armi spuntate per fermare i propri cittadini che vi fanno ricorso: è infatti sufficiente fare un salto oltrefrontiera (Russia e Ucraina, volendo limitarci al vecchio continente) per aggirare il divieto e trovare mercati dove la pratica è organizzata dalla legge con regolari contratti che normano quella che viene catalogata come erogazione di un servizio, accanto ad altri (India, Nepal, Thailandia, Vietnam) dove al riparo di un’offerta alla luce del sole prospera un suk di cliniche precarie, ragazze ingravidate su commissione e recluse, assegni da migliaia di dollari che solo in minima parte andranno alle madri a pagamento. Emblematico il caso italiano: nel dibattito su come vietare l’utero in affitto viene chiamata in causa la legge 40, che all’articolo 12, comma 6, tuttora dispone che «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600mila a un milione di euro». Notato di passaggio che si tratta proprio della tanto vituperata legge sulla procreazione assistita data per morta dagli stessi che oggi le si aggrappano per scongiurare inasprimenti della disciplina, le cronache giudiziarie ci hanno riportato una decina di casi nei quali la regolare denuncia alle autorità giudiziarie italiane da parte delle nostre rappresentanze in Paesi come India o Ucraina di irregolarità o comportamenti sospetti di connazionali improvvisamente apparsi con neonati di dubbia provenienza ha sortito una raffica di sentenze assolutorie «nel superiore interesse del minore». Una legalizzazione di fatto, in barba alla legge e ai suoi divieti ormai ridotti a grida manzoniana. Va notato, peraltro, che a Paesi dove l’utero in affitto è più o meno ufficialmente consentito si rivolge ad esempio anche un gran numero di coppie inglesi, pur essendo la pratica legale a Londra da trent’anni: segno che – come già accade con gli embrioni umani concepiti in provetta – per quanto si liberalizzino le pratiche c’è sempre un posto nel mondo dove è consentito 'qualcos’altro', i prezzi sono più contenuti, o i diritti di chi affitta una pancia sono sostanzialmente carta straccia. Ancor più eclatante il caso degli Usa: legale in 8 Stati, la pratica della «gestazione per altri» – come viene anche definita, in un classico esempio di antilingua – è vietata o tollerata nel resto degli States. Una situazione che ha creato un mercato competitivo e capace di attrarre clienti da tutto il mondo per le maggiori garanzie sanitarie e la possibilità di fare del bimbo 'su commissione' un cittadino americano in virtù del luogo di nascita e della mamma biologica. Proprio dal primo Stato a legalizzare l’utero in affitto – la California – è partita nel maggio dell’anno scorso la prima vera petizione globale contro la maternità a pagamento – «Stop surrogacy now» – promossa da Jennifer Lahl, presidente del Center for Bioethics and Culture di Pleasant Hill, instancabile attivista giramondo (sarà alla manifestazione di Roma sabato), autrice di due documentari di denuncia: Eggsploitation sulle donne che vendono i propri ovociti per il sempre più prospero mercato della fecondazione eterologa, e il più recente Breeders, col quale porta alla luce le incredibili storie di donne che hanno ceduto per nove mesi la loro pancia ai migliori offerenti. Ma anche le coppie americane possono contare sull’hard discountsulla porta di casa, negli Stati del Centroamerica dove il listino prezzi per un bebè chiavi in mano passa dai 70-100mila dollari a meno della metà in Guatemala. Lahl conosce bene questo quadro di sfruttamento del corpo femminile quando denuncia nell’appello, fatto proprio da esponenti del femminismo americano, che «la maternità surrogata spesso è basata sullo sfruttamento delle donne più povere», puntando il dito poi su un altro aspetto pressoché rimosso da quanti asseriscono che – se gratuita – la maternità surrogata sarebbe eticamente accettabile: l’utero in affitto, si legge nell’appello americano, «rompe intenzionalmente il legame materno naturale che si stabilisce durante la gravidanza», che è «di natura intima» e che «una volta spezzato» produce conseguenze permanenti per entrambe le parti». Anche in Italia voci laiche hanno deciso di far sentire nel dicembre scorso la loro civile richiesta con un appello col quale – affermano – «rifiutiamo di considerare la maternità surrogata un atto di libertà o di amore», gridando a gran voce che «i bambini non sono cose da vendere o da 'donare'. Se vengono programmaticamente scissi dalla storia che li ha portati alla luce e che comunque è la loro, i bambini diventano merce». È evidente che per circoscrivere un supermarket planetario della vita nascente pressoché senza regole, spietatamente concorrenziale, sempre accessibile via Internet e in costante crescita, seguendo l’incremento della richiesta da parte di coppie etero e omosessuali, servono strumenti proporzionati: leggi interne efficaci saldate a disposizioni internazionali severe, ma prima ancora un approccio al diventare papà e mamma nel quale non trovi spazio la concezione del figlio come oggetto da ordinare, assemblare e pagare alla consegna. Una mentalità, questa, figlia dell’individualismo consumista, che ha prodotto l’esplosione della domanda di procreazione artificiale in tutte le sue forme e sempre più allergica a limiti e divieti, espressione della logica secondo la quale ciò che è oggetto di desiderio, che la tecnica può produrre e che il denaro permette è per ciò stesso lecito, e diventa dunque oggetto di nuovi 'diritti'. Anch’essi beni di consumo, lasciando aperta la porta con stratagemmi giuridici alla riduzione a oggetto negoziabile del legame tra una mamma e il figlio del suo grembo. Ovvero ciò che l’umanità custodisce di più prezioso.
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