mercoledì 18 maggio 2016
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Un film yemenita di denuncia, che interpella pure l'Italia La storia della bambina yemenita di 10 anni, data in sposa a un uomo che ha trent’anni di più, è ovviamente una storia di violenza. Allora la domanda è: chi fa violenza sulla piccola? Chi la costringe a seguire un uomo adulto, a subire tutto quello che lui vuole, come una schiava? È stata vinta in guerra? La sua famiglia, il suo popolo sono stati distrutti, e lei è alla mercé del nemico vittorioso? Il padre è sconfitto? La madre capisce tutto e piange perché non può farci niente? Nient’affatto, la spiegazione è molto più amara di così. Ce la offre un film che gira nei nostri cinema in questi giorni, La sposa bambina. Partiamo dall’ultima domanda: la madre. La madre non difende la figlia, la madre sa tutto e collabora perché tutto avvenga. È lei che consegna la piccola all’adulto che se la porta via, è lei che riconduce la figlia all’obbedienza quando la figlia si ribella e scappa. Il marito a sua volta ha una madre, e anche questa madre spinge la piccola a obbedire e subire, che la piccola moglie si ribelli al marito è al di là dell’immaginabile. Dunque: la schiavitù sessuale delle bambine non vede le donne-madri come ostili e ribelli, ma come collaborazioniste. È la comunità delle donne adulte che perpetua la schiavitù delle donne bambine. Questa è la prima, traumatica rivelazione del film girato in Yemen da una regista yemenita, su una storia realmente accaduta, che ha per protagonista una bambina di 10 anni, ma nella quale la regista racconta anche la sua personale infanzia, perché anche lei fu data in sposa all’età di 11 anni, e subì quel che nel film racconta. Il film dà molteplici garanzie di autenticità. Nella parte finale c’è un’arringa in tribunale, pronunciata dall’avvocata che difende la bambina e che ricorda al giudice e a quelli che ascoltano che le Nazioni Unite parlano di 70mila bambine vittime ogni anno di questi 'matrimoni infantili'. Sono vittime del potere maschile, che in questi casi porta alle estreme conseguenze un principio-cardine dell’islam: l’uomo vale più della donna. L’autorità maschile è tutto, la volontà femminile si deve adeguare. Il potere maschile ha il vertice nel piacere sessuale, l’adeguamento della donna all’autorità maschile raggiunge il massimo quando si mette al servizio di quel piacere. La donna ha un senso in quanto serve al piacere maschile. La donna che non serve a questo, non serve a niente. La vita della donna deve correre verso questo senso fin da prima della pubertà. C’è qualcuno, nel film, che a un certo punto canta una strofa del peggior maschilismo, che dice così: «Se a otto anni la sposerai, / grande piacere le darai». Noi ci sdegniamo, tra il pubblico sentivo serpeggiare incredulità e condanna, ma anche noi dobbiamo domandarci un paio di cosette. La piccola Chicca, buttata giù dall’ottavo piano da un orco violentatore, aveva 6 anni, e la storiaccia non era all’inizio, era cronicizzata, come dice la perizia, e le madri del palazzone non erano all’oscuro, c’erano nonne che sapevano tutto e tacevano, e madri che addirittura collaboravano. E poi: tra le bambine musulmane che frequentano le scuole in Italia, ci sono ogni anno circa 2mila quattordicenni che non s’iscrivono all’anno successivo, come mai? Che fine fanno? Vengono rispedite in patria a sposare uomini adulti scelti dai loro padri. Queste bambine appartengono a famiglie con cittadinanza italiana, e dunque sono mie sorelle. Per trascuratezza, per incuria, per inefficienza, noi forniamo ogni anno circa 2mila di quelle 70mila bambine-spose di cui parla l’Onu. Certo, non siamo responsabili di quella usanza. Però, non siamo innocenti di quella pratica. Il film si chiude con la piccola che sorride, sui banchi di una scuola: ecco qual è la soluzione, l’istruzione. Il marito violentatore della sposa bambina è analfabeta. Il violentatoreassassino della piccola Chicca non sappiamo quante scuole abbia frequentato. Ma se diciamo nessuna, con ogni probabilità indoviniamo.
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