martedì 28 giugno 2016
​Lezione statistica e demografica anche per l'Italia.
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Nel vivace dibattito sui risultati della Brexit uno spazio non marginale è stato riservato in questi giorni anche ad argomentazioni di ordine demografico. Secondo le valutazioni degli esperti, la presenza di oltre 11 milioni di ultrasessantacinquenni – il 24% dei circa dei 47 milioni di britannici chiamati al voto – avrebbe decisamente influito sulla vittoria dei leave, essendo quest’ultimo l’orientamento prevalente entro la componente più anziana dell’elettorato. In proposito le indicazioni fornite dai sondaggisti segnalano, pur con la parzialità e i limiti del caso, un’elevata correlazione inversa tra l’età dell’elettorato e la propensione rimanere nell’Unione Europea: si scende da oltre sette elettori su dieci tra i giovani 18-24enni a quattro su dieci tra gli ultrasessantacinquenni. A ciò va aggiunto che la correlazione cambia di segno, ed è ancora più forte, allorché si considera la percentuale di remain in funzione non già degli anni vissuti dalle diverse componenti dell’elettorato (l’età), bensì in relazione agli anni che ancora resterebbero loro da vivere: la così detta «vita attesa o speranza di vita». Dagli oltre 60 anni di futuro che ancora (mediamente) spetterebbero ai 18-24enni, orientati a restare nella Ue per il 73% dei casi, si passa a poco più di 12 anni per coloro che appartengono all’elettorato più anziano e sono maggiormente propensi ad uscire dalla Unione ( leave al 60%). Chi ha più futuro davanti a sé sembra dunque meno disposto a sostenere un cambiamento, come è quello dell’uscita dall’Ue, i cui effetti copriranno una lunga parte della propria esistenza. Di fatto, il sacrosanto principio «One man, one vote » (ogni testa un voto), che ha portato i fautori del leave a superare nella misura dell’8% quelli del remain , costringerà il popolo dei perdenti a vivere mediamente più a lungo una scelta che non ha condiviso. Infatti, mentre si calcola che all’insieme dei 47 milioni di potenziali elettori britannici spetterebbe, alle condizioni di sopravvivenza del nostro tempo, un totale di circa 1,6 miliardi di anni di vita (34 pro capite), si stima che la quota di futuro facente capo ai sostenitori del remain supererebbe del 23% quella della controparte: 878 milioni di anni-vita a fronte di 716, con una differenza – a favore dei primi – di 7 anni pro capite. Ben consapevoli che le argomentazioni alla base delle scelte referendarie sono state varie e complesse, dobbiamo tuttavia riconoscere come l’invecchiamento demografico, che tanto fa discutere sul fronte degli scenari socio-economici (pensioni e sanità più di ogni altro), è capace di lasciare il segno anche rispetto alle strategie politiche ai più alti livelli. Certo, l’età è solo il marcatore più evidente associato ai molti fattori che sembrano aver condizionato e differenziato il risultato della consultazione britannica – urbanizzazione, istruzione, condizioni di vita – e che hanno interagito con le grandi problematiche del nostro tempo, dalla persistente crisi economica all’immigrazione, presente e potenziale. Ma la lezione della Brexit è che se è vero che l’età anagrafica rappresenta una variabile determinante anche nei processi che democraticamente segnano le scelte e gli orientamenti di un Paese, allora l’invecchiamento demografico è destinato a lasciare sempre più il futuro in mano a chi – pur con un meritorio passato e con la virtù della saggezza – spesso tende naturalmente a vivere nel presente o, al più, è incline a muoversi con un visione che si protrae nel breve periodo. Come conciliare le strategie, le scelte e gli investimenti che possono dare frutti solo a lungo termine con la necessità di mantenere consenso entro una società che sarà sempre più vecchia? Ad esempio, pensando all’Italia di oggi, dove la percentuale di ultrasessantacinquenni nel complesso dei potenziali elettori raggiunge il 28% e supera il dato britannico di ben quattro punti percentuali, quale potrebbe essere il comportamento della nostra popolazione di fronte a un analogo referendum sulla permanenza in Europa? Se dovessimo semplicisticamente applicare alla composizione per età degli attuali elettori italiani le percentuali che riflettono i corrispondenti comportamenti dei britannici avremmo il 48,6% disposto a restare e il 51,4% orientato ad uscire.  Questa proiezione che ci pone di fronte a tre semplici letture alternative. Possiamo vederla come pura curiosità e frutto di un (inutile) esercizio di calcolo. Oppure possiamo arroccarci dietro la convinzione che 'noi siamo diversi dagli inglesi' e quindi il loro comportamento non può fare testo. Infine, possiamo accogliere il messaggio e inserire gli effetti dell’invecchiamento sugli scenari dettati dalle scelte politiche tra le avvertenze da mettere in conto per governare al meglio il cambiamento demografico. Solo quest’ultima lettura, pur con tutte le doverose riserve sulla comparabilità dei dati e la semplicità del metodo, è espressione di un atteggiamento costruttivo e responsabile.
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