martedì 22 novembre 2011
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Quando, la scorsa estate, Josè Luis Rodríguez Zapatero ha fissato la data delle elezioni anticipate per il 20 novembre, 36° anniversario della morte di Francisco Franco, il suo obiettivo era ricordare agli elettori le radici franchiste della destra spagnola, già allora molto avanti nei sondaggi. Non poteva immaginare che gli elettori avrebbero riportato agli anni Settanta non i popolari, ma i suoi socialisti, ridotti a livelli di consenso e di rappresentanza parlamentare inferiori a quelli delle prime elezioni del post-franchismo, nel 1977.

Si chiude così l’era di Zapatero, cui una parte della sinistra europea ha guardato per qualche tempo come a un modello, di cui è bene oggi ricordare i tratti essenziali. Si tratta – si badi bene – non del modello del socialismo spagnolo in sé (che ha una ricca tradizione e avrà un importante futuro), ma della proposta politica, più radicale (in senso italiano) che socialista, sostenuta da una generazione di 40-50enni, fra i quali lo stesso leader e, oggi, la sua delfina, il ministro della Difesa Carme Chacón (cui è appena riuscita la memorabile impresa di condurre al tracollo i socialisti in Catalogna, ove era capolista).

Il primo tratto distintivo del modello Zapatero è stato la polarizzazione: come Silvio Berlusconi, ma a differenza di tutti gli altri leader di grandi partiti europei, il premier spagnolo ha investito sulla demonizzazione dell’avversario (non solo in campagna elettorale, ma anche nella politica quotidiana), qualificato come «estrema destra», neo­franchista e clericale. E ha vampirizzato la sinistra post-comunista: Izquierda Unida nel 2008 venne ridotta a 2 deputati e solo questo permise la vittoria del Psoe. Il premier non ha neppure esitato a riaprire le dolorose ferite della guerra civile degli anni Trenta, che la transizione spagnola degli anni Settanta aveva tentato di seppellire.

Con l’argomento dei diritti delle vittime (naturalmente solo di alcune, quelle del campo repubblicano, tacendo sulle migliaia di sacerdoti, suore e laici uccisi da repubblicani, comunisti e anarchici), il governo socialista ha tentato di riscrivere la storia di una delle pagine più dolorose del secolo. Un’operazione equivoca come la lustracja polacca, con la differenza che solo quest’ultima appariva impropria ai grandi media liberal europei. Nella sua ricerca di alleati, il Psoe non ha esitato a cercare interlocutori non politically correct, come gli indipendentisti catalani di Esquerra Republicana e la galassia della sinistra abertzale (cioè radicale) nel Paese Basco, scavalcando i nazionalisti moderati delle due regioni differenziate. Ha giocato col fuoco della questione territoriale, soprattutto in Catalogna e ha persino aperto una ambigua trattativa con l’Eta, umiliando le associazioni delle vittime del terrorismo.

La vicenda dei cosiddetti diritti "civili" (matrimonio gay, aborto, divorzio "express", ricerca sugli embrioni) è così nota che è quasi inutile richiamarla: ma anche in questo caso il modello ZP è stato la totale assenza di dialogo con una parte importantissima della società spagnola, in nome di una ideologia divisiva. In questo contesto, la Chiesa spagnola è stata dipinta come un’arca neofranchista e addirittura vilipesa per sette anni. Lo spirito dell’anticlericalismo repubblicano degli anni Trenta è stato ripreso in tutto fuorché nel ricorso alla violenza. Compreso, però, il tentativo di indottrinare le nuove generazioni mediante un corso scolastico di «educazione alla cittadinanza», finalizzato a trasmettere agli studenti il modello antropologico del Partito socialista.

La via radicale Zapatero l’ha tentata anche in politica estera: il suo primo gesto, nel 2004, fu il ritiro delle truppe dall’Iraq. Ma il suo governo si è concluso con ampie concessioni agli Stati Uniti circa l’uso delle basi militari spagnole, soprattutto a Cadice. Infine l’economia, su cui Zapatero è caduto. Qui il segno dominante dei suoi sette anni è stato il nulla: veleggiare sul successo ereditato dagli anni di Aznar, senza accorgersi che i tempi stavano cambiando e finendo per adottare, lo scorso anno, drastiche misure di austerity quando il miracolo spagnolo si è rivelato una bolla, basata solo su finanza ed edilizia. Come in Italia, chiuso l’equivoco, i problemi restano. Ma ora la politica spagnola ha di nuovo un volto serio e rispettabile e smette di essere vuota propaganda. Sul sogno-incubo Zapatero giudicherà la storia.

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