venerdì 24 giugno 2016
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La sentenza della Prima sezione civile della Corte di Cassazione ha consentito all’adozione di un minore all’interno di una coppia non eterosessuale, e ha aperto un varco che potrebbe allargarsi, fino al disconoscimento del diritto nativo del bambino ad avere un padre e una madre, condizione per la propria formazione e crescita umana e psicologica. Le disquisizioni giuridiche sono spesso complicate, ma possono essere semplici, se si guarda all’essenziale. Nel nostro ordinamento non esiste alcuna norma che permette di negare, arrivando a qualificarlo addirittura discriminatorio, il diritto alla doppia genitorialità. Anzi, nel corso dell’iter parlamentare che ha portato alla recente legge sulle unioni civili, pur essendo stata proposta l’introduzione della stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner, meccanismo utilizzato ora dalla Cassazione), essa era stata accantonata, non approvata, rinviandone eventualmente la discussione. Siamo di fronte a una chiarissima volontà del legislatore di cui (tutti) i giudici dovrebbero tener conto, e che invece la Cassazione ha eluso facendo ricorso ad altre norme preesistenti, e inafferenti: una radiografia sbagliata delle leggi che ci governano, a livello nazionale e internazionale. La sentenza, infatti, ha approvato l’argomentare dei giudici di merito sostenendo che poteva applicarsi la legge 184/1983 che prevede l’adozione per casi speciali, tra i quali però non poteva comunque ricomprendersi l’ipotesi di due madri, o padri, anche perché all’epoca di ciò nemmeno si parlava. È vero, e va sottolineato, che la Cassazione afferma esplicitamente che non intende, con la soluzione del caso odierno, dettare un principio generale valido comunque per l’adozione da parte di coppie omosessuali. E ciò va ricordato a quanti esultano per una pronuncia che vorrebbero usare e generalizzare. Tuttavia, è vero che, decidendo a favore dell’adozione nella situazione specifica, i giudici della Cassazione l’hanno fatto senza porsi alcun interrogativo su questioni giuridiche essenziali, sui diritti del minore come definiti dalla nostra legislazione, e dalle Carte internazionali dei diritti umani. Questo è il vero vulnus recato dalla sentenza rispetto alla tutela dei bambini, al loro rapporto coi genitori. Su questo punto occorre riflettere, anche per evitare che si commettano errori su errori nel lavoro legislativo che attende il Parlamento. Colpisce, ad esempio, che la sentenza motivi la decisione sostenendo che non si può dare «rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione da questo stabilita con il proprio partner» - limitando così la riflessione alle esigenze degli adulti - e neanche esamini, se non marginalmente, il problema nella prospettiva dei bambini: per i quali le Carte internazionali, anzitutto la Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, espressamente prevedono il principio della doppia genitorialità come condizione per il rispetto e lo sviluppo della loro personalità. Questi diritti primordiali, tutelati dalle Costituzioni di tutto il mondo, costituiscono un nucleo fondante della nostra concezione della famiglia, un grumo valoriale insostituibile per la crescita dell’essere umano, ma non sono neanche citati nella sentenza della Cassazione. La quale evoca invece una giurisprudenza non univoca della Corte di Strasburgo, come se potesse sostituire le Carte internazionali e i princìpi costituzionali, e fa riferimento all’«interesse del minore» valutandolo però alla luce delle esigenze affettive degli adulti anziché della complessità della sua personalità in divenire: una disarmante carenza giuridica e umana. Si pone a questo punto l’interrogativo cruciale che interpella il nostro Parlamento, le forze politiche, la loro capacità di intervenire per evitare che si ricorra ancora a sotterfugi, riserve mentali, soluzioni pasticciate, su questioni come quelle del matrimonio e della famiglia.
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