martedì 28 luglio 2015
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È crollata la Borsa di Shanghai e il tonfo è stato clamoroso: -8,5%, il risultato peggiore dal 2007. La notizia della nuova caduta del mercato finanziario della seconda potenza economica globale non ha faticato a trovare spazio sui siti internet di tutti i grandi giornali del mondo. Dal New York Times al Figaro, dal Tokyo Shinbun al brasiliano O Globo; ognuno ieri dedicava il suo primo o secondo titolo alla crisi della Borsa asiatica. Tutti tranne i giornali cinesi. Il Quotidiano del Popolo e l’agenzia di stampa Xhinua, i due principali organi della Repubblica Popolare, hanno piazzato la notizia negli angoletti delle loro home page.  Con questo patetico tentativo di nascondere al mondo quello che il mondo già sapeva benissimo, Pechino ci ha ricordato con ancora più evidenza che se la vecchia Europa e gli Stati Uniti contano sulla Cina come motore per la crescita globale dei prossimi anni allora si stanno affidando a un motore tanto potente quanto inaffidabile. In realtà non avevamo bisogno di ulteriori prove di questo. Il crollo della Borsa era più che sufficiente, in quanto supremo risultato del goffo tentativo da parte del regime comunista di riprendere il controllo del 'suo' mercato azionario.  All’inizio della scorsa estate la Borsa cinese si era lanciata in un’incredibile corsa, che l’ha spinta a guadagnare il 120% in meno di un anno. Corsa folle perché senza senso: le azioni valevano sempre di più, ma l’economia cinese continuava a rallentare e i profitti delle aziende non salivano. Una classica bolla speculativa, sostenuta dall’immensa disponibilità di credito messa a disposizione dalle banche statali cinesi e da tutto quel sistema bancario 'ombra' che ha continuato a fare arrivare il denaro al 'sistema produttivo' anche contro la volontà del regime di Pechino. Una bolla – lo dicevano quasi tutti sin dalla scorsa primavera – che è inesorabilmente scoppiata. A giugno la Borsa cinese ha perso il 30% nel giro di tre settimane. A quel punto il governo ha deciso che le azioni, a Shanghai, per un po’ non sarebbero più scese. Per risollevarle il regime ha fatto di tutto: sospensione dalle contrattazioni di 2.800 società quotate, creazione di un fondo pubblico incaricato di comprare i titoli per farne risalire il valore, divieto per i grandi azionisti di rivendere le azioni, obbligo per le imprese di ricomprarli. Il settimanale Cajing ha scritto che per risollevare i listini Pechino ha speso 1.300 miliardi di yuan, cioè quasi 200 miliardi di euro. Ha funzionato, per qualche settimana. Ma i mercati sono un animale difficile da regolare – Europa e Stati Uniti ne sanno qualcosa – figuriamoci se è facile domarli del tutto. Nella seduta di lunedì sono state riammesse alle contrattazioni le azioni di 1.400 società; e chi ha potuto ha venduto, scatenando il crollo. Il governo si muoverà di nuovo.  È pronto a schierare il China Securities Finance Corporation, fondo per la stabilizzazione dei mercati che ha disposizione 3mila miliardi di yuan (circa 400 miliardi di euro). La cifra è enorme, ma difficilmente basterà: quando gli speculatori vogliono «mettere alla prova» la tenuta di un sistema di solito vanno fino in fondo. In ogni caso, avvertono gli analisti internazionali, «la fiducia nel mercato azionario cinese è stata distrutta ed è improbabile che possa tornare in poco tempo». Non è ancora chiaro che danno causerà all’economia reale cinese lo scoppio di questa 'Lehman Brothers alla salsa di soia'. Il rischio è enorme. Anche da noi: la ripresa globale – quella europea in particolare e quella italiana più di tutte – è già abbastanza fragile così com’è, non resisterebbe a una brusca frenata del Dragone.  Bisognerà comunque cercarla altrove la 'carica' per dare una nuova spinta alle nostre economie. Più passano gli anni più diventa chiaro che il capitalismo in salsa comunista applicato a 1,4 miliardi di persone ha una capacità estremamente limitata di produrre benessere economico nel resto del mondo.
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