sabato 28 febbraio 2015
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Il proposito di disegnare una nuova governance per la Rai, con l’intento di «recidere il cordone ombelicale che la collega alla politica» è sicuramente lodevole. È un obiettivo ambizioso che tocca temi molto sensibili come il pluralismo nel nostro sistema radiotelevisivo, in un contesto di progressiva riduzione e ricollocazione delle risorse pubblicitarie. Dovrebbe sembrare logico, prima di discettare di meccanismi di governance, stabilire se oggi serve al Paese una azienda radiotelevisiva di servizio pubblico, che cosa debba fare, come, con quali dimensioni e con quali risorse. E, prima ancora, sarà il caso di esaminare lo stato in cui è stata ridotta la Rai, proprio dalla politica: una moltitudine di dipendenti con un rapporto diretto con i vari partiti in ogni struttura, editoriale, tecnica o amministrativa che sia, un accumulo di rendite di posizione che spesso (pur invocandole) si oppongono alle innovazioni tecnologiche, sia per quanto riguarda i mestieri più tecnici, sia per quanto riguarda i giornalisti (che nei broadcaster stranieri si montano sempre più spesso da soli i propri pezzi), sia per quanto riguarda i vertici editoriali, principalmente interessati al mantenimento dell’audience consolidata, ed essendo quest’ultima costituita in larghissima parte da ultrassessantacinquenni concentrati al sud (i famosi couch potatoes, i teledipendenti), una simile impostazione definisce già di per sé i confini del prodotto editoriale... Alla domanda se serve oggi un Servizio Pubblico, io risponderei di sì e per molti motivi: non si può negare che l’Italia - soprattutto, ma non solo, al Sud - è ritornata indietro di moltissimi anni, per di più con una grande crescita dell’analfabetismo di ritorno. Un dato di fatto con cui misurarsi e che richiede - checché ne dicano illustri maître à penser, che ritengono impraticabile, oggi, una simile attività - una alfabetizzazione culturale e informatica di anziani e anche di giovani, che invece può passare proprio grazie al cavallo di Troia della crossmedialità. C’è poi da cogliere ancora una opportunità da sempre mancata: quella che un tempo era 'Rai International', e che non dovrebbe solo parlare agli italiani all’estero mandando in onda pur selezionati 'avanzi' della programmazione nazionale, ma mostrare l’Italia al mondo proponendo in modo efficace i nostri migliori asset (moda, enogastronomia, bellezze naturali, arte, turismo, cultura, auto, lusso, tecnologia, alto artigianato) così da costituire un grande supporto all’esportazione e alla fama del 'marchio' Italia. C’è un gran bisogno di una narrazione che tramite fiction e programmi sappia proporre ai giovani aspirazioni più utili rispetto al cantante e al gourmet. Come quei mestieri manuali che hanno consentito la ripresa americana, da loro stessi battezzata manufacturing renaissance,  e che in Italia hanno a che fare proprio con gli asset di cui sopra.  Non c’è nemmeno bisogno di indire troppi seminari per individuare la missione giusta per un moderno servizio pubblico: sta già scritta in un documento dimenticato in un cassetto. Fu approvato dal CdA presieduto da Zaccaria, di cui facevo parte, durante un consiglio tenuto a Milano nel 1999. Recita al primo punto, su mia proposta: 'Elevare il senso critico del Paese'. Esattamente ciò di cui necessita un Italia ancora ripiegata su stessa, che vuole imparare a confrontarsi davvero con il resto del mondo.  Una volta stabilito questo, c’è da affrontare il nodo delle sue dimensioni. È ovvio che tutti ameremmo una Rai meno costosa e quindi dimagrita, magari con meno reti e con una informazione e un intrattenimento di migliore qualità, e con programmi culturali capaci di essere popolari. Così rimane da stabilire che si fa se si vende una rete (si cede solo il marchio o anche parte del personale?), che si fa delle molte centinaia di esuberi che si creerebbero se si fosse intenzionati a razionalizzare sul serio, come si fa a convincere chi rimane a re-imparare il proprio mestiere per saper lavorare nell’era della crossmedialità, come si fa ad avviare un radicale cambiamento dei dirigenti grazie a una guida editoriale forte e competente, capace di visione e di conoscenza dei meccanismi in grado di implementarla in una azienda ricca di professionalità eppure così calcificata nei suoi vizi. Da tutto ciò si evince che la governance in fondo è il problema meno complesso: basterebbe imitare quella che meglio funziona negli altri Paesi. Senza illudersi troppo: in fondo, persino i giudici della Corte costituzionale, da noi, vengono scelti a seconda delle appartenenze...
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