sabato 23 maggio 2015
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Sul muro esterno, la vernice nera ha impresso un versetto della lettera di San Paolo agli ebrei: «Ricordatevi dei prigionieri come se foste prigionieri insieme a loro». L’opposto di quanto cerca di fare San Pedro Sula: El Presidio, il carcere, è considerato dalla maggior parte un 'non luogo'. Eppure, penitenziario e capitale economica dell’Honduras sono ostaggio della medesima violenza. Che, dietro le sbarre, esplode con rivolte periodiche: l’ultima, l’11 marzo, ha fatto tre vittime e una ventina di feriti. Fuori si manifesta in una 'monotona' mattanza che la macabra contabilità del crimine sintetizza nel 'tasso' di 187 assassinii ogni 100mila abitanti. Il doppio della media nazionale – 90 omicidi su 100mila – comunque la più alta al mondo. San Pedro Sula ha, dunque, il tragico titolo di città più violenta del Paese più violento sul pianeta. Per capire che cosa significhi basta fare un salto all’obitorio o 'morgue', un giorno qualunque, ad esempio una domenica pomeriggio. Impossibile avere informazioni dal personale. In realtà, non è necessario. Fuori dal cancello c’è Denis, dell’agenzia funebre 'La Mejor'. Accanto a lui vari modelli di bare in esposizione. «Mi alterno con un collega, in modo da riuscire a venire tutti i giorni. Almeno un feretro si vende sempre. E pure l’agenzia concorrente piazzata sul marciapiede di fronte - fa buoni affari», racconta, senza scomporsi.   Appena finisce di parlare, sopraggiunge un auto con il portabagagli aperto. Dentro sporge una cassa di legno: la famiglia non ha l’equivalente di 100 dollari per il modello più economico venduto da 'La Mejor'. «Ho costruito io la bara per il mio William», dice con straordinaria compostezza il papà, Rubén, venuto dalla baraccopoli di La Cholona a 'ritirare' il corpo del figlio per la sepoltura. Il giovane, 24 anni, è stato rapito e ucciso una settimana prima. «Era un autista di bus. Il proprietario della compagnia non ha pagato la 'renta' (pizzo) alle maras. E loro si sono vendicate su mio figlio». Maras è un termine che gli honduregni automaticamente associano a violenza. Indica le gang giovanili formate nei ghetti di Los Angeles dai piccoli esuli delle guerre civili centroamericane degli anni Ottanta. E poi importate nei Paesi d’origine, quando i ragazzi – diventati nel frattempo uomini – sono stati rimpatriati in massa al termine dei conflitti. «La fragilità istituzionale dell’Honduras dopo decenni di dittatura, le politiche ferocemente neoliberali e il conseguente aumento della diseguaglianza, il senso di sradicamento di questi giovani catapultati in una 'patria' sconosciuta, di cui non conoscevano nemmeno la lingua, hanno fatto proliferare le 'maras'», spiega Javier Canales, consulente su questioni di sicurezza. Il boom, però, è arrivato dopo il 2003, quando il governo ha varato la cosiddetta 'ley de mano dura': da allora, appartenere a una mara è diventato reato.   Migliaia e migliaia di adolescenti, a malapena simpatizzanti di una gang, sono stati sbattuti in cella, dove c’erano dei veri 'mareros'. Le carceri sono diventate un 'centro di reclutamento'. Le gang non sono sparite, tutt’altro. Da una parte, hanno imparato a rendersi 'invisibili', eliminando ad esempio i tatuaggi. Dall’altra, la repressione le ha spinte a radicalizzarsi e a diventare vere e proprie bande criminali». Tra corruzione e impunità le maras si sono estese per l’Honduras. A San Pedro Sula ormai tutta la zona 'al di là' della ferrovia – quella povera, che occupa i tre quarti della città – è loro. In particolare della Mara Salvatrucha (Ms) e Barrio 18 (M18), le due bande più violente e mortali nemiche. Tale 'proprietà' si esprime nella riscossione della 'renta' a ogni attività commerciale del quartiere e, a volte, anche ai residenti. In cambio dell’estorsione, le bande mantengono 'l’ordine'. I delitti sono puniti con severità. Tranne i loro, ovviamente.  «Abbassa il finestrino – dice con fare perentorio Masbely Del Cid, suora della Misericordia –: stiamo per entrare nella colonia (quartiere-baraccopoli) Sandoval e le 'banderines' (spie delle maras) saranno appostate. Devono vederci in faccia per essere sicure che non siamo della gang nemica. Altrimenti ci sparano addosso». È così che le maras mantengono 'l’ordine' nelle colonias. La loro morsa grava soprattutto sui poveri per cui spesso il 'pizzo' è insostenibile. Ogni tre giorni, in città, un ambulante chiude la bancarella perché non può pagare.  Eppure, a guardare con più attenzione, le gang sembrano appena la punta di quell’iceberg criminale su cui si infrange la società honduregna. Le radici della violenza sono profonde e occulte. «Pensi a dov’è situato l’Honduras e capirà», afferma monsignor Romulo Emiliani, claretiano, vescovo ausiliare di San Pedro Sula. Il Paese si trova nel cuore del corridoio centroamericano della cocaina: secondo il Dipartimento di Stato, il 79 per cento dei carichi diretti verso gli Stati Uniti lo attraversa.  Atterrano in una delle oltre 200 piste clandestine nascoste negli altipiani, vicino a paesini dai nomi pittoreschi come Azagualpa, Macuelizo, Cocotepeque. E proseguono il viaggio via terra, fino alla frontiera con il Guatemala. Il clima in Honduras ha iniziato a surriscaldarsi dagli anni Duemila, quando i narcos messicani hanno sostituito i colombiani nella gestione del business. E hanno potenziato il corridoio centroamericano, a discapito di altre rotte. A gestirlo sono ora «il cartello di Sinaloa, Los Zetas, oltre al gruppo colombiano Del Valle. I trafficanti locali lavorano per loro», spiega Víctor Meza, esperto di violenza e direttore del Centro di Documentazione di Tegucigalpa. È l’infiltrazione dei narcos, con la conseguente competizione violenta per il controllo delle rotte e la corruzione del sistema politico-sociale, il vero motore della mattanza.   Le grandi mafie, però, agiscono dietro le quinte, lasciando la ribalta alle maras. «Spesso tra cartelli e gang ci sono dei punti di contatto - afferma Meza -. I primi possono reclutarle come sicari o come piccoli spacciatori.  Non partecipano, però, al multimilionario business della coca». Monsignor Emiliani è ancora più esplicito: «Qualche volta i narcos usano i pandilleros (ragazzi delle bande) come 'cani da guardia', nulla più. Sono loro a pagare il prezzo più alto». Il vescovo è uno dei pochi honduregni che i mareros rispettano. «Perché li conosco e li guardo come esseri umani: non sono mostri, sono il prodotto di una serie di ingiustizie. E perché mi sono giocato la vita per loro in più di un’occasione», afferma monsignor Emiliani. Quando c’è uno scontro a fuoco o una rivolta carceraria è lui a mediare. «Dieci mesi fa, se monsignor Emiliani non mi avesse convinto ad arrendermi alla polizia, mi avrebbero ucciso. Ma prima avrei ammazzato molti agenti», afferma 'El Gordo', uno dei 320 esponenti della M18 reclusi nel Presidio. Il loro settore è inaccessibile ai detenuti rivali della Ms e agli altri prigionieri: una chiave, quella esterna, ce l’hanno le guardie, i reclusi hanno, però, quella interna.   Solo monsignor Emiliani supera le barriere senza difficoltà. La sua 'scorta' è vitale per poter entrare – e uscire – dal penitenziario con 800 posti, 2.760 prigionieri e appena 60 agenti. Il vescovo visita regolarmente El Presidio da oltre 12 anni. La sua pastorale delle maras è nata nelle 'bartolinas', maxi celle comuni, giorno dopo giorno. Per prevenire la violenza, il pastore ha creato la Fondazione 'Uniti per la vita'. E, da anni, con le offerte raccolte, sta costruendo un nuovo carcere, più umano.  Due anni fa, proprio dal Presidio, Ms e M18 emisero un comunicato congiunto in cui chiedevano perdono a «Dio, allo Stato e ai cittadini» e chiedevano aiuto al governo per lasciare il crimine e riabilitarsi. Monsignor Emiliani e l’Organizzazione degli Stati americani si erano fatti garanti dell’iniziativa. Dall’esecutivo, finora, non è arrivata alcuna risposta. E la ley de mano dura resta in vigore. «Eppure, senza dialogo, non si va da nessuna parte», afferma il vescovo. Autorità e parte dell’opinione pubblica non credono che i mareros possano o vogliano cambiare.  Perché dovrebbero farlo? «Lo chieda a loro», rilancia monsignor Emiliani. Risponde un detenuto non più giovanissimo della Ms: «Sono uno dei pochi superstiti della mia generazione. Ogni giorno ho sfidato la morte. Ho due figli: non voglio questo per loro».
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