venerdì 31 ottobre 2014
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Qualche giorno fa con la consueta acutezza, Sergio Romano ci ha ricordato che «le parole non sono scatole vuote», ma condensano un comune sentire, che a volte è quello che risulta da esperienze plurimillenarie dell’umanità. Così, egli rileva, se si insiste per usare la parola 'matrimonio' per qualificare legalmente le convivenze omosessuali, si realizza un vero e proprio «furto di tradizione», che, secondo l’opinionista del Corriere della Sera, «non conviene neppure agli omosessuali». Ciò che essi dovrebbero richiedere non sarebbe propriamente il matrimonio, ma un «diritto nuovo» e sarebbe, di conseguenza, opportuno che si usasse un «termine nuovo», ove si decidesse di riconoscere loro questo diritto.  L’argomentazione sembra difficilmente confutabile. La si può anche ricondurre al dettato di una delle poche sagge sentenze in materia della Corte Costituzionale italiana, che da una parte ha negato che le convivenze omosessuali possano essere tutelate ex art. 29 (che, ha ribadito la Corte, è stato pensato con esclusivo riguardo al matrimonio tra un uomo e una donna), ma dall’altra ha aggiunto che è ben possibile (anzi, opportuno) che esse vengano riconosciute in base all’art. 2, quello che impone alla Repubblica di tutelare tutte le formazioni sociali all’interno delle quali si svolge la personalità dell’uomo.  Ciò non di meno, l’esortazione di Sergio Romano a individuare parole nuove per designare nuove dinamiche e nuovi istituti giuridici appare appesa a un filo. Lo dimostra il fatto che la pretesa di una serie di associazioni e movimenti gay di ottenere (ove lo richiedano) il riconoscimento delle loro convivenze proprio come matrimoni (nel senso linguistico-tradizionale del termine) sta ottenendo ampia soddisfazione, almeno nel mondo occidentale, e si è già consolidata in diversi ordinamenti giuridici. Lo dimostra altresì il fatto che nei casi in cui alle convivenze gay si è riconosciuto non il diritto al matrimonio, ma il diritto a stipulare una 'convivenza registrata' (come in Germania o, con qualche lieve variante lessicale, nel Regno Unito) si è rapidamente provveduto, o per via amministrativa o per via giurisdizionale, a riconnettere alle convivenze registrate gli stessi identici diritti riconosciuti alle coppie eterosessuali regolarmente coniugate. E poiché tra i diritti delle coppie coniugate eterosessuali c’è quello all’adozione, è possibile, senza contraddirsi, negare questo diritto anche alle coppie gay, regolarmente legalizzate?  Certamente sì, ma solo a una condizione (quella cui allude Romano), la condizione di non riconoscere le convivenze gay come propriamente matrimoniali, cioè come convivenze di principio 'generative', ma come qualcosa di radicalmente diverso, come convivenze di principio esclusivamente 'aggregative'. Conosciamo bene il desiderio di molte coppie omosessuali (ma non tutte!) di trascendere la loro insuperabile sterilità, aprendosi alla procreazione (secondo le più diverse e complesse tecniche artificiali); ma negare loro il diritto di interpretare se stesse come unioni generative non è far loro violenza, ma rendere un omaggio alla verità delle cose, o, più semplicemente, alla 'natura' (se vogliamo usare un termine controverso, ma in questo contesto irrinunciabile). È un discorso, questo, che può apparire duro, ma che ha dalla sua la durezza della verità: i fatti, ripeteva Norberto Bobbio, sono «resistenti». Accettiamo l’invito di Sergio Romano e cerchiamo di resistere alla tentazione di commettere nei confronti del termine 'matrimonio' un «furto di tradizione»: cerchiamo, se vogliamo legalizzare le unioni omosessuali, di rispettare la verità delle cose, cioè, in definitiva, di rispettare noi stessi.
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