venerdì 7 ottobre 2011
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C'è una grande opportunità che l’Italia sta perdendo, non tanto "a causa" della crisi, ma "nonostante" la crisi. È la possibilità di rimettere in piedi il Paese anche a partire da quel tessuto sociale delle comunità che la lunga (e dispendiosa) stagione del welfare statale e i continui tagli alle risorse per i servizi di prossimità ha lentamente indebolito e sgretolato. Un logoramento silenzioso, ma inesorabile, che ha reso e sta rendendo le nostre città sempre più luoghi perfetti e ideali per le persone "abili e arruolabili", ma sempre meno facili da vivere, quasi ostili, nella dimensione del bisogno, anche minimo, o della debolezza.Ne parliamo perché quanto sta avvenendo, intendiamo l’eutanasia delle attività sociali che letteralmente reggono le nostre comunità – e la protesta delle associazioni di Napoli è solo la punta visibile di un iceberg – assume i connotati del paradosso. Una stagione di crisi drammatica e devastante come quella che stiamo attraversando richiederebbe uno sforzo collettivo in una direzione precisa: rafforzare chi, operando ogni giorno vicino alle persone e alle famiglie, riesce ad aiutarle, comprenderne i reali bisogni, accompagnarle e sostenerle nella fatica dell’esistenza materiale. Parliamo, ancora una volta, di realtà che permettono ai minori più fragili di guardare al futuro con un pizzico di fiducia verso il prossimo e verso se stessi, di associazioni e cooperative che aprono asili nido dove non ce ne sono e dove le mamme che lavorano sono costrette a licenziarsi, di esseri umani che si recano nella case di altri esseri umani per evitare che la solitudine li inghiotta in una voragine di disperazione, di imprenditori e operatori sociali che prendono gli "scarti" del mercato del lavoro e a 50 anni e passa li rimettono in pista a correre più di prima e meglio di prima. Parliamo di opere che aiutano 5 milioni di esseri umani e che potremmo continuare a descrivere come miracoli quotidiani dell’economia sociale, ma che tanta gente vera del Paese vero conosce già benissimo perché ne attraversa l’esistenza tutti i giorni. Realtà inserite in una dimensione tipica dei nostri territori e che, con il fallimento della stagione dello statalismo totale, stavano rinascendo nello sforzo di riallacciare le reti delle comunità, di ri-animare i tessuti sfibrati della società.La crisi, dicevamo, dovrebbe spingerci a fare in modo che queste centina, migliaia di energie positive sparse ovunque in Italia, possano continuare ad aiutarci – aiutare noi tutti, poveri di soldi e poveri di futuro – a camminare vicini. Invece accade esattamente il contrario. La politica economica e finanziaria nazionale taglia le risorse alle imprese sociali e ne aumenta gli oneri fiscali. La politica locale si agita per la riduzione dei trasferimenti statali ma, anziché fare passi avanti nell’autocritica per gli sprechi o le opere meno necessarie, taglia proprio quei servizi mediaticamente poco visibili, ma necessari e fondamentali anche per un ceto medio sempre più smarrito.L’attacco a questo universo, accompagnato da una strana e straniante offensiva contro il non profit e il welfare della sussidiarietà, parte da due posizioni culturali e politiche apparentemente lontane e opposte, in realtà diabolicamente alleate nell’opera distruttiva: una è la visione di chi osteggia da sempre il principio di uno Stato sociale che, pur in una totale dimensione pubblica, economica e solidale, viene comunque offerto in forma "privata"; l’altra è la posizione di chi non riesce ancora a digerire l’idea di un’impresa che, anziché premiare e ripagare solo chi la possiede, cerca di massimizzare il profitto sociale a favore del bene comune.La realtà, drammatica, è che bambini, giovani madri, malati, disabili, disoccupati, anziani in difficoltà, non rappresentano un corpo elettorale compatto. Così, far chiudere una o dieci o cento cooperative sociali ha un costo altissimo, che si trasferisce interamente sul futuro, ma resta poco visibile nell’immediato presente. Realizzare una nuova e bella rotonda stradale, invece, può assicurare la rielezione di un sindaco. Il problema, per un Paese indisciplinato e senza direzione, resta, come avviene quasi sempre agli incroci, quello delle precedenze.
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