martedì 5 gennaio 2016
Il sistema creditizio tra fallimenti e riforme. La sola minaccia del "bail in" non basta a educare il risparmiatore. Cooperative di credito non profit, la difesa che serve. (Pietro Cafaro) 
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«Responsabilizzare il risparmiatore!». L’imperativo categorico ripetuto dall’alto degli amboni più diversi da economisti ed esperti di varia natura, sembra assumere il tratto di un mantra destinato ad accompagnarci in questo inizio di anno. Si auspica una 'educazione alla finanza' da impartire ai ragazzi fin dalla scuola dell’obbligo per poter liberare preventivamente financo il cittadino qualunque dal rischio di finire in qualche trabocchetto finanziario. «La banca fa il suo interesse e non è detto che sia il tuo». Questo dovrebbe essere il convincimento nuovo da inculcare nei giovani, magari condendolo con qualche citazione di Adam Smith, la sua mano invisibile e le convenienze del salumaio... Ma le asimmetrie informative non si superano così facilmente: il luogo dell’equilibrio perfetto dei mercati dei capitali dove la finanza è solo lo strumento 'neutro' per allocare nel modo più efficiente ed efficace possibile le risorse, esiste, ad oggi, solo nel regno di Utopia. Tanto più poi in Paesi come il nostro o come gran parte di quelli che compongono l’Unione europea, dove, proprio in presenza di forti asimmetrie, si è formata da più di un secolo a questa parte un’economia fortemente orientata agli intermediari. Nel mondo anglosassone le cose sono un po’ diverse. Del tanto parlare che si fa in questi giorni di banche, sembra emergere il convincimento di alcuni (spacciato, come sovente avviene, per verità assoluta) che esista un solo modello di efficienza bancaria e che sia necessario adeguarvisi prontamente. Regole e modelli sono rapidamente confezionati e ci si accinge ad imporre lo sforzo di farvi entrare istituti creditizi di ogni ordine e grado. Un’occhiata pur rapida alla genesi storica dell’attuale sistema bancario europeo non farebbe male e permetterebbe di scoprire, ad esempio, che il modello di banca universale (o mista che dir si voglia) imposta a tutto il continente dalla deregulation dell’ultimo decennio del secolo scorso, è stato prevalentemente nella storia la versione infantile o pre-agonica di una banca o di una tipologia di banche. Gli esempi si possono sprecare e, per limitarci al nostro Paese, si possono ricordare gli ultimi giorni da banca tuttofare della Società generale di credito mobiliare ben descritti da Maffeo Pantaleoni nell’ultimo scorcio di Ottocento, o il tentativo (finito in quello che Raffaele Mattioli definì 'catoblepismo') di utilizzare da noi quello che era considerato un modello bancario tedesco, tentativo sfociato in una serie di immobilizzi devastanti e di salvataggi a ripetizione.Probabilmente si può considerare un’eccezione proprio il caso tedesco dove la banca mista era sostenuta indirettamente dalle grandi commesse di uno Stato intenzionato (in una storia per fortuna ormai remota) a diventare la più grande potenza militare del mondo! È quindi abbastanza evidente come la specializzazione funzionale e la biodiversità operativa siano una evoluzione positiva della banca. La specializzazione in ogni ambito è qualcosa di meglio di una conoscenza generica. Perché non dovrebbe esserlo in campo bancario? Perché mai non ci dovrebbero essere banche specializzate nella raccolta e nella tutela dei depositi e banche più volte all’investimento? E perché mai non dovrebbero esserci banche atte ad investire a medio e lungo termine alimentandosi sull’interbancario o con l’emissione di specifiche obbligazioni? o ancora, banche operati in ambito territoriale ristretto e banche operanti sull’universo mondo? ' Ofelé fa el to mesté' si usa dire a Milano. Dovrebbe essere quella della specializzazione la prima regola, per evitare che, con l’eccesso di concorrenza, si raschi il fondo del barile alla ricerca di profitti ovunque: la specializzazione può certo portare a comportamenti opportunistici, ma almeno evita che l’avidità o la disperazione portino all’avventatezza di bruciare senza esitazione denaro d’altri. E i risparmiatori potrebbero scegliere più agevolmente a chi affidare il proprio denaro. Tutto ciò perché dentro la logica della banca tuttofare si rischia di perdere di vista il fatto d’essere l’istituto di credito al servizio di risparmiatori ed investitori: senza di questi ultimi (e non viceversa) non potrebbe neppure esistere! Come si può quindi considerare principale parametro di efficienza il profitto distribuito agli azionisti, come se la banca fosse un’impresa come tutte le altre? In questo tipo d’azienda devono contare più gli stakeholder (i portatori di interessi) degli shareholder (gli azionisti) e si deve considerare anche quanto viene genericamente riversato sul territorio ove si opera. Cosa ce ne faremmo di un mondo abitato solo da poche banche 'efficienti' perché capaci di drenare, con profitto per i loro pochi azionisti, risparmi dal territorio per volgerli a più o meno spericolate operazioni di alta finanza? O di istituti che non sanno interpretare le esigenze di ripresa e di emancipazione delle loro aree di riferimento? L’omologazione (che non sempre premia il meglio e che il più delle volte è mossa da precisi interessi di parte) può essere molto pericolosa perché può privarci di ogni possibilità di scelta. In una logica dominata dal profitto individuale le asimmetrie informative esistono e sempre esisteranno perché sono proprio queste gli espedienti più adatti a trasferire ricchezza. 'Trasferire ricchezza' perché la ricchezza prodotta ex novo dall’economia, specie da noi, è ben poca e i profitti sono prevalentemente il frutto di attività finanziaria. Ora, come si può immaginare che chi gode di questa rendita di posizione sia disposto a rinunciarvi e non invece ad aumentarla? Ha senso, allora, invocare, con la Storia, quanto già è stato messo in atto per ovviare a questo problema, magari riferendosi anche ad Adam Smith e alla sua mano invisibile. Una banca che faccia necessariamente gli interessi suoi e insieme di risparmiatori e di investitori è già stata inventata: si chiama banca cooperativa senza finalità di lucro. Lunghe discussioni a cui parteciparono molte menti belle tra Ottocento e Novecento ce l’ha ben disegnata. Sarà magari, per dirla sempre con il liberista Pantaleoni, «un’accozzaglia di piccoli egoismi» a costituirne il motore, ma di fatto rappresenta l’unico luogo dove il suo interesse è il tuo, se sei tra quei soci che le danno vita.Naturalmente deve essere capace di produrre e accantonare quella ricchezza che serve, in un lungo patto intergenerazionale, a garantirne l’esistenza; deve essere guidata in modo sapiente e democratico, deve strutturarsi in rete di diverso grado, per garantirsi economie di scala adeguate. Ma soprattutto, deve mantenere quel rapporto diretto ed autonomo col territorio per far sì che veramente sia lo strumento di interessi liberamente associati. Trasformazioni ardite che di una banca tengano conto solo del funzionamento efficiente della macchina aziendale, ma che trascurino il problema del possibile conflitto di interessi tra proprietà e clientela nella ridistribuzione dei vantaggi economici, sono destinate ad acuire e non a limitare i comportamenti opportunistici. Con buona pace di chi, vivendo nel rassicurante e fantastico mondo degli equilibri perfetti, è convinto che basti la minaccia del bail in ad orientare responsabilmente il risparmiatore. Magari aggiungendo la stantia regola latina fatta propria da alcuni, non proprio democratici, governanti, di «colpirne uno per educarne cento».
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