domenica 24 maggio 2015
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Quando mi viene chiesto perché abbia sentito l’urgenza di approfondire le 'beatitudini', dunque di costruire un programma televisivo sulla proposta di felicità all’uomo da parte di Gesù di Nazareth su una collina, o ai piedi di essa, presso il Lago di Tiberiade, sempre mi trovo nella difficoltà di descrivere una dimensione invisibile eppure presente che ho cominciato a percepire da qualche tempo nel mio lavoro da inviato.Non so dire esattamente quando questa percezione è iniziata, magari quando realizzavo interviste al seguito di una manifestazione di protesta, o attendendo nella calca di cronisti che uscissero dal palazzo i membri di una qualche direzione politica, oppure mentre spulciavo le carte di un’inchiesta che illuminava la sostanza cinica e brutale delle relazioni economiche e politiche di chi detiene il potere. Fatto sta che guardandomi intorno, il che è il mio mestiere, ho cominciato ad avvertire come una patina di gelo che si posava sulle cose e le persone. L’affannarsi e il dibattere di ciascuno nella nostra vita pubblica, lungi dal modificare le cose, le pietrificava. Ma questo spazio pietrificato, in cui ciascuno arriva a coincidere con la sua smorfia di dolore o di scherno, non era esattamente reale. Ciascuno reca il suo altrove al deserto, ed esso si espande. Ho provato a esaminare questo altrove, cioè lo spazio di irrealtà che ciascuno coltiva, un giardino del nulla sul retro del cuore. Vi ho trovato tristezza e paura. Il mondo è cambiato e poiché non sappiamo interpretarlo, replichiamo gli schemi che interpretavano il mondo di ieri. Penso alla fabbrica, alla famiglia, allo Stato. Tre dimensioni fondanti della percezione dello spazio pubblico dell’altro secolo. Oggi la fabbrica è vuota, oppure è invisibile, sezionata in mille altre fabbriche sparse per il mondo, ciascuna responsabile di una particella di prodotto, dunque il conflitto, sociale o ambientale, che la fabbrica esprime oggi è impraticabile, non perché risolto ma perché disincarnato. La crisi si presenta nel nostro mondo come una crescita costante della ricchezza e della povertà, dunque della diseguaglianza. Tali fenomeni avvengono sereni senza freni e conflitti, nell’altrove intangibile della finanza. La famiglia è nuda, sempre più spogliata delle norme che la costruivano come un presidio dell’uomo, negata e scimmiottata dalla cultura dominante, oppure rimpianta e venerata come un’immaginetta. Per questo proprio alle famiglie, cioè al motore di bene della società, è riservato un destino di povertà che invece scansa meglio chi sceglie di stare da solo. Infine lo Stato, via via sbranato dalla sua stessa ombra: il debito pubblico, il quale è una voragine che si fa ogni giorno più profonda nonostante le manovre, le svolte e i proclami. È il nostro passato di cattivo benessere che ora risucchia il futuro. Se siamo per l’uguaglianza oppure se siamo per la libertà, se siamo gli alfieri della laicità oppure se siamo per fondare il diritto su una legge che lo precede, insomma comunque la pensiamo, avvertiamo come la realtà presente sfugga alla nostra capacità di modificarla, a maggior ragione se persino i potenti fanno costantemente professione di impotenza, costretti a obbedire a una necessità economica immodificabile nei suoi presupposti, tanto distruttiva quanto indistruttibile, perché prodotta da meccanismi presentati come sottratti all’agire dell’uomo, ancorché dall’uomo determinati. L’ex ceto medio, in televisione, sui giornali, in rete, assiste a un racconto della realtà che essendo permanente si sovrappone alla realtà sostituendola, frantumandola e insieme ricomponendola in una dimensione spettacolare, dunque falsa. Il pubblico si intrattiene partecipando a un costante conflitto su decisioni che non gli spettano più, si raccoglie sghignazzante di fronte al potente di turno, svergognato dall’ultima indagine, additato come l’emblema di ogni male, e poi lasciato tornare in sella col suo vestito di fango che insozza anche la sedia dove siede, e il palazzo, e l’istituzione. Per sopravvivere in questo tempo allora edifichiamo il tempio dell’altrove, come sostituto della speranza che non sappiamo più concepire. O vi cadiamo addormentati per la tristezza, la tristezza di chi non sa affrontare il dolore e la sconfitta dunque non sa superarli. Oppure riempiamo questo altrove di oggetti e di idoli, persino il lavoro o l’amore li trasformiamo così, cercando di farci assorbire da essi, di perdere la nostra libertà e la nostra coscienza di uomini, finiamo per vivere trascinati dal tempo della vita ma ad esso estranei, come relitti in un fiume. Penso che gli ebrei e gli altri abitanti della Palestina di allora dovessero vivere un tempo 'apocalittico' simile al nostro. Schiacciati dalla dominazione romana, che era la forma di globalizzazione che quel tempo visse. E oppressi dalla 'casta' di allora, che si divideva e si ricomponeva intorno a una legge di cui venerava la forma ma non comprendeva la sostanza. Immagino quali risposte cercasse la folla della provincia di Cafarnao, una cittadina piena di stranieri, di fronte al lago di Tiberiade, ai piedi di una montagnola, mi sono immaginato all’interno di quella folla fattasi intorno a quello strano personaggio, un carpentiere di una città poco conosciuta, che parlava al mondo con inspiegabile autorità. Immaginiamo che la scena avvenga oggi, che ne so, dalle parti di Pescara, un carpentiere trentenne di Frosinone, guarisce, parla e raccoglie discepoli al porto, tra i pescherecci. Accorre una folla di diseredati, immigrati, contaminati, esodati, disoccupati, cassaintegrati, precari, traditi dal marito, dalla moglie, delusi dai partiti, dai sindacati, dalle ideologie, dalle mode, magari dalla Chiesa stessa. E in mezzo a loro ci sono io, giornalista cinico e insolente, che non sa credere a niente. Tutti con il nostro fagotto sulle spalle, speriamo che questo nuovo guru, il carpentiere capellone, ci consenta di riempirlo di un nuovo altrove collettivo, meno depresso del nostro. Una prospettiva, una bandiera, una soluzione, una ricetta politica, oppure spirituale e religiosa, qualche pratica mistica, che ci tiri fuori dal nostro dolore, dalla nostra preoccupazione, dalla nostra miseria, dalla nostra rabbia. Tutti sperano insomma di sentirsi aggregati in una nuova prospettiva, contro un nuovo nemico. E invece... E invece il carpentiere coi capelli lunghi tiene un discorso diverso, che non sottrae le persone alla loro condizione, né le reclude all’interno di essa, ma le spinge a sperimentarla come una nuova possibilità in rapporto con gli altri e con Dio. «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli, beati gli afflitti perché saranno consolati, beati i miti perché erediteranno la terra». Sembra un paradosso, quasi una presa in giro. Ciò che il mondo e ciascuno considera una sventura qui è indicato come un’occasione di felicità, al punto da doverlo cercare. Il limite di ciascuno non è più ciò che lo imprigiona ma lo spazio dentro il quale è possibile sperimentare l’amore senza limiti. L’altrove irreale, del possesso, della felicità isterica, della tristezza viene soppiantato dalla realtà dell’uomo incluso nello sguardo di Dio. L’uomo è – se riconosce il suo limite e in virtù di esso – proiettato già oggi verso l’infinito e l’eterno. È chiamato a includere gli altri costantemente in una relazione con lui e a lasciarsi includere contemporaneamente in una relazione con Dio. La beatitudine, cioè la felicità non carpita ai danni della coscienza ma sperimentata dall’uomo nella sua interezza, carnale e spirituale, diventa la nuova dimensione della realtà, contemporaneamente esistenziale, sociale e religiosa. Dunque l’impoverimento delle nostre esistenze, l’affermazione di valori estranei ai nostri, la fame di giustizia che cresce, il dolore per le guerre e per le malattie, il ripetersi di catastrofi naturali, cioè la prospettiva che stiamo determinando con le nostre azioni, possono essere affrontati e risolti senza fuggire dalla realtà, senza riunire le proprie comunità nel nome del nemico, rimpiangendo gli antichi schemi e cercando protezione nel ricordo un po’ indignato di un bene perduto. Ma proprio affermando la realtà dell’uomo beato, che anticipa oggi ciò che ha ricevuto come promessa per il domani, perché sa che la sua realtà appartiene sia all’oggi che al domani. Realizza la realtà di Gesù che lo ha incluso nella sua vita, includendo a sua volta gli altri nella propria realtà. E dunque anticipa la salvezza che ha ottenuto. È per questo che il discorso della montagna mi è parso un discorso realistico, cioè un discorso che libera l’uomo dal suo altrove, e inaugura la realtà come spazio di libertà e possibilità. Al punto da tentare l’impossibile impresa di realizzare intorno alle beatitudini una trasmissione televisiva. Ovviamente non sono io che possiedo le risposte giuste alle domande che questa parte del Vangelo pone. Nella nostra trasmissione si alterneranno testimoni, personaggi delle più varie estrazioni, donne e uomini di spettacolo e catechisti, scelti in virtù della loro capacità di parlar chiaro e diretto. Insomma, è uno spettacolo nel quale si incontrano persone, si raccontano storie e si ascoltano canzoni, e soprattutto si suscitano domande, per chi crede e per chi non crede. Vi aspetto domani alle 21, su Tv2000. Il programma si chiama «Beati voi!».
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