mercoledì 27 gennaio 2016
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ell’attuale, confuso, spesso fazioso dibattito sul riconoscimento legale di unioni tra persone che si definiscono omosessuali, c’è un elemento che, se troppo taciuto, fa perdere senso al confronto, che invece potrebbe essere salutare e non solo sterile contrapposizione. L’io, l’identità di una persona non è definita dalle sue scelte. È caratterizzata, certo, ma non definita. Per questo accettare - come vogliono opposte ideologie - che uomini e donne si definiscano in quanto omosessuali o eterosessuali è fuorviante. Lo è tanto quanto definire una persona 'ebreo' o 'nero'. ell’attuale, confuso, spesso fazioso dibattito sul riconoscimento legale di unioni tra persone che si definiscono omosessuali, c’è un elemento che, se troppo taciuto, fa perdere senso al confronto, che invece potrebbe essere salutare e non solo sterile contrapposizione. L’io, l’identità di una persona non è definita dalle sue scelte. È caratterizzata, certo, ma non definita. Per questo accettare - come vogliono opposte ideologie - che uomini e donne si definiscano in quanto omosessuali o eterosessuali è fuorviante. Lo è tanto quanto definire una persona 'ebreo' o 'nero'. La persona, questo meraviglioso misterioso organismo di corpo e spirito, è definito da qualcosa che gli conferisce un valore assoluto, prima e al di là delle scelte che compie e della cultura che vive. Il suo essere creatura di Dio, per chi crede, o l’esser definito da qualcosa senza misura, per chi non accoglie l’ipotesi religiosa, è il problema in gioco oggi. Questo legame con l’infinito toglie l’essere umano dalla disponibilità di ogni potere. E lo alza sopra ogni disegno di uso e di abuso che se ne voglia fare. Per questo, come segno di rispetto di tale valore, la saggezza popolare affermava: «Si dice il peccato, ma non il peccatore». O, in altro campo, un uomo che si macchia di un reato non 'coincide' con quel reato, non ne è definito totalmente e perciò si tenta di recuperarlo. La separazione tra 'io' di valore assoluto e 'atto' (o scelta) che invece può e deve essere oggetto di discussione, di apprezzamento o di accusa, in quanto frutto spesso di fluttuanti volontà o di mode dettate dal pensiero dominante, è uno dei pilastri fondamentali di un sapere che custodisce l’intangibilità della persona. Vale anche per la malattia.  Un uomo non è la sua malattia, non è - come si pensava prima di Cristo, e ancora in certe civiltà - esito di colpa o errore di natura. Per questo è possibile dire che in quanto tale un uomo che ha compiuto un atto grave o che vive una dura condizione di handicap vale quanto il presidente degli Stati Uniti o una meravigliosa star. Insistere, come fa la filosofia detta 'gender', che la identità di una persona consista nelle sue scelte o nelle sue tendenze è perciò un grave attentato al valore in sé della persona. Non si separa più tra persona e atto. Tu sei un omosessuale, tu sei un eterosessuale. No, tu sei Mario, tu sei Giuseppe, tu sei rapporto con il Mistero che ti fa. Poi discutiamo sugli atti e sulle scelte. Non a caso tale filosofia, nata nei dipartimenti umanistici dall’incontro del materialismo con l’individualismo americano, non avendo più un fondamento di valore esterno alle scelte e sposando, appunto, una idea di società individualistica, finisce per fissare l’identità in certe caratteristiche o tendenze. E ovviamente, chiede che queste identità non siano discriminate dalle leggi. Se a questo si oppone un modo di vedere contrario sulle scelte legislative, ma identico nel modo di pensare alla persona, beh, il dibattito è inutile. È solo scontro di potere. Il motivo per cui si possono pensare forme di unione (di contratto) tra persone che vogliono convivere, senza che questo coincida con il poter 'usare' di una terza persona (figlio, donna in affitto ridotta al suo utero etc.) mi pare il modo più saggio per uscire da questa diatriba. È sacrosanto manifestare perché le leggi non stravolgano il senso delle parole (non è un matrimonio se non c’è mater munus, ovvero protezione dei figli generati, ma può esservi un altro tipo di contratto) e perché si proteggano i diritti dei più deboli da un commercio iniquo, contro la dignità della donna. Ma il vero tema resta sul campo, decisivo. Lo ha gridato Leopardi alla luna: «E io che sono?». Una certa ansia che soprattutto nei giovani si nota deriva dal fatto che se «io sono quello che scelgo e che faccio», nel momento in cui commetto un errore, magari una baggianata, avverto il mio essere tutto definito dallo sbaglio. E ciò genera ansia e una dipendenza ansiogena dal giudizio altrui (spesso drogato da forme di chiacchiera social). Occorre un nuovo movimento di liberazione dell’io. Di questo il cristianesimo autenticamente vissuto si è sempre fatto carico, perché nato da un Dio che ama smisuratamente l’io di ciascuno.
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