mercoledì 1 luglio 2015
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Domenica. Il citofono squilla che è ancora buio. Mimma, non ancora cinquantenne, mia dirimpettaia sta morendo. Il cancro, ancora una volta, ha vinto. Per la verità, di rado in questi anni l’ho visto alzare bandiera bianca. Poche ore dopo, in parrocchia c’è euforia, gioia, aria di festa: diciotto bambini per la prima volta riceveranno Gesù nascosto nel Pane. Sono veramente belli, con l’abito bianco e il giglio tra le mani. La chiesa è stracolma di parenti e amici, tanta gente che ha smesso di andare a Messa, in queste occasioni ci ritorna volentieri. Sono emozionate queste anime innocenti e con le mani tormentano il cordone che cinge loro i fianchi. Mille pensieri mi passano per la testa, si arruffano, si ingarbugliano. Penso alla responsabilità che abbiamo nei loro confronti di educarli soprattutto con gli esempi. Penso alle severissime parole di Gesù rivolte a chi si permette di toccare i bambini. Penso allo scempio della pedofilia e alla scarsa volontà e capacità degli adulti di estirparlo dalla faccia della terra. La Messa ha inizio, i bambini, come ogni domenica mattina, mi aiutano a spiegare il brano del Vangelo: Gesù fa ritornare in vita una bambina morta. Miracolo grande che rimanda al miracolo in cui siamo immersi tutti i giorni. Viviamo nel paese delle fate, diceva Chesterton, e non ce ne rendiamo conto. Dobbiamo tutti imparare a essere grati e riconoscenti, perché da chi sa di essere un dono, il mondo non avrà mai niente da temere. Preghiera dei fedeli. Ogni bambino ha scritto la sua. L’assemblea tace. Davide, un bel biondino, prega: «Signore, ti prego guarisci la mia mamma e fa che il babbo trovi un lavoro...». Un velo di commozione scende sull’assemblea. La mamma di Davide, dietro, piange. Anche lei lotta contro il male di cui parliamo. Non posso cedere alla commozione. Con voce squillante prego a mia volta: «Signore, non puoi non ascoltare la preghiera di Davide... Su, facci felice... Dicci di sì...». Domenica sera, prima della Messa, Pinuccio, ministro straordinario della Comunione, mi prende in disparte, mi abbraccia e mi farfuglia all’orecchio: «Padre, la terra dei fuochi mi sta sterminando la famiglia...». Lunedì, solennità dei santi Pietro e Paolo, festa della mia parrocchia dedicata all’Apostolo delle genti. Il telefono squilla: don Nicola, diacono permanente, si è aggravato. Corro, so che mi aspetta. Ha saputo di essere ammalato di cancro solo all’inizio di questo mese. Nemmeno il tempo di un ricovero in ospedale e già è alla fine. La rabbia che ci invade è tanta. Non siamo scienziati, nessuno di noi ha avuto mai la stupida pretesa di esserlo. Siamo, però, la Chiesa presente su questo territorio, che ha il diritto e il dovere di mettersi in ascolto della sua gente. Sono un prete che corre al capezzale degli ammalati e celebra i funerali quando muoiono. Sono un uomo al quale, in privato, tanti medici chiedono di continuare a combattere per risolvere lo scempio ambientale che ci tiene prigionieri, ma poi non sempre in pubblico, per motivi che posso solo immaginare, alzano la voce. Allora, spetta farlo a noi. Con la caparbietà di chi sa che tacere sarebbe peccato. Con la speranza dei figli di Dio. Con il dolore di chi ha accompagnato al camposanto tanti cari e teme per chi è rimasto in vita. Unicuique suum. A ciascuno il suo, in diritti e doveri. Nessuno ha il diritto di invadere il campo altrui. Servono professionisti seri, coraggiosi e onesti e una politica attenta che abbia la voglia di risolvere un dramma ambientale che continua a mietere vittime. Purtroppo, da parte di qualcuno, è in corso un tentativo subdolo non di negare – ormai non è più possibile – ma di ridimensionare il dramma e restringerlo a livello locale. Non è così. Mentre scrivo, i rintocchi della campana mi ricordano che Mimma sta per essere accompagnata al cimitero. E nel pomeriggio, dopo poche ore di agonia, anche don Nicola dice addio alla vita.
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