venerdì 27 maggio 2016
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Nel giorno in cui Donald Trump ha raggiunto ufficialmente il numero minimo di delegati per ottenere la nomination repubblicana, il suo fantasma si è materializzato al vertice giapponese del G7, cosa inusuale per un candidato alla presidenza che non ha ancora l’investitura ufficiale. Barack Obama, inquilino uscente della Casa Bianca, si è fatto interprete dello stato d’animo degli altri leader, dicendo che sono rattled, qualcosa di simile all’italiano "scossi", per l’«ignoranza delle questioni mondiali» esibita dal tycoon. Ovviamente, un esponente democratico non tifa per lo schieramento opposto, tuttavia un certo galateo istituzionale di solito impedisce ai presidenti in carica prese di posizione così esplicite e divisive. Ma Trump si è posto fin dall’inizio come divisivo e, grazie alla studiata strategia mediatica, ha raggiunto il suo primo obiettivo, cosa che ben pochi avrebbero pronosticato. Il miliardario alfiere del politicamente scorretto ha polarizzato la scena politica, si è scientemente costruito un profilo scomodo e irriverente rispetto all’establishment, per avvicinarsi all’uomo della strada deluso dagli attuali rappresentanti. Un populista, certo. Che forse non crede in tutto quello che proclama (a partire dai muri e dalle deportazioni), che però è riuscito a ritagliarsi un consenso e ad accrescerlo proprio grazie allo stizzito senso di superiorità che i suoi avversari gli hanno spesso opposto e che l’ha reso più popolare tra coloro che gli erano potenzialmente vicini ma ancora non l’avevano eletto a proprio campione. Ne è un esempio il tweet lanciato ieri del capo di gabinetto del presidente della Commissione europea Juncker. Martin Selmayr ha scritto: «Con Trump, Le Pen, Boris Johnson e Beppe Grillo, avremmo uno scenario dell’orrore». Si possono certamente coltivare precise idee su leader e aspiranti tali, così come sui loro programmi, non necessariamente, però, si è nel giusto e, soprattutto, non si può semplicemente mettere in un unico fascio anche partiti che hanno raccolto grandi consensi nel proprio Paese e non hanno deragliato dall’alveo della democrazia, come i conservatori britannici dell’ex sindaco di Londra Johnson e i Cinque Stelle italiani. La demonizzazione preventiva o continuata non fa che alimentare il fuoco dei populismi, allargando la frattura negli elettorati e nelle culture politiche. Restando a Trump, prima lo si è considerato una specie di macchietta, destinata a finire presto la propria corsa nelle primarie, poi si è cercato di dipingerlo come un impresentabile che non poteva entrare nel salotto buono, infine si è tentata da parte dei repubblicani una conventio ad excludendum che ha miseramente fallito nel suo intento. Anzi, ha probabilmente aumentato il richiamo di The Donald, com’è familiarmente chiamato l’imprenditore di edilizia e casinò. Oggi bisogna fare i conti con la possibilità che Trump arrivi alla Casa Bianca. Non è per nulla un’ipotesi auspicabile, ma è diventato uno scenario concreto. Soprattutto se lo si guarda non dalle stanze chiuse, e forse un po’ snob, della Commissione europea, ma dalla prospettiva dei cittadini statunitensi. Hillary Clinton è sì sostenuta dall’élite della Silicon Valley, icona del progresso tecnologico e del progressismo politico, ma incarna per tutti gli altri aspetti un passato che non scalda più i cuori. Il candidato spaccone e volgare, xenofobo e dalle promesse irrealizzabili sta dalla parte degli 'atomi' contro i 'bit', rappresenta un’idea di economia materiale (ieri ha persino difeso il carbone come fonte energetica) contrapposta alla frontiera digitale, ma si appoggia su una retorica di riscatto, di rinascita, di 'America di nuovo grande' che suscita il facile entusiasmo di chi è rimasto ai margini dalla rivoluzione economica e sociale degli ultimi decenni. In mancanza di una narrazione alternativa,  a chi, legittimamente, vuole contrastare Trump, sarà più utile smontare con pacatezza i falsi miti (su migranti, islam e ambiente, in primo luogo) che alimentano la sua campagna e proporre programmi credibili che non gridare al mostro. E non solo per il fatto che il 'mostro' potrebbe, nel prossimo gennaio, essere a capo della superpotenza mondiale. Ma perché, in generale, l’inadeguatezza di una politica degli slogan, di un segno o dell’altro, è ormai sotto gli occhi di tutti e non può che premiare chi la spara più grossa (infatti, il tycoon si è rallegrato di avere 'scosso' i leader del G7). Forse i numerosi Trump che affollano la scena mondiale, non ultimo il neopresidente filippino Duterte, più che il parto di un elettorato 'cattivo' con cui tanti non vogliono avere a che fare, sono il risultato di errori e inadeguatezze proprio di coloro che poi deprecano il crescente populismo. Una lezione che si può imparare anche prima che si aprano le urne americane del fatidico 8 novembre
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