venerdì 19 agosto 2016
​Dall'attivismo dei volontari al fascino dei Nobel: dal 1980 la rassegna è occasione di confronto culturale.
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 Meeting al via. Più di un festival, un «popolo»
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Dieci anni fa, il 22 agosto del 2006, il Meeting di Rimini trattenne il fiato per una sera. In programma c’era un concerto di Claudio Chieffo e si sapeva che sarebbe stato l’ultimo (l’artista, malato da tempo, morì meno di un anno dopo, il 19 agosto del 2007). Le canzoni di una vita, l’abbraccio degli amici e quella dichiarazione che andrebbe messa in epigrafe a ogni edizione del Meeting: «Quando gli altri cantautori mi dicono di invidiare il mio pubblico – raccontava Chieffo quella notte –, rispondo sempre che il mio non è un pubblico: è un popolo».È così dal 1980, l’anno dell’esordio di questo che potrebbe essere considerato il primo dei festival culturali italiani, se davvero fosse solamente un festival. Gli elementi del genere ci sono tutti, dalla presenza degli ospiti internazionali fino all’attivismo instancabile dei volontari. Una formula che oggi appare consolidata, ma che allora rappresentava una novità rispetto allo schema, molto più rigido e in sostanza privo di reali aperture, delle tradizionali feste di partito. Certo, fin dall’inizio quello riminese è stato l’appuntamento irrinunciabile per il movimento di Comunione e Liberazione (il “popolo” al quale faceva riferimento Chieffo), ma anche un’occasione più estesa di dialogo e di incontro, come promette la formulazione completa dell’insegna, “Meeting per l’amicizia tra i popoli”. Obiettivo non facile neppure per l’estate dell’80, in effetti. A Mosca si sono appena concluse le Olimpiadi clamorosamente boicottate dagli Stati Uniti e a Rimini Irina Alberti, Vladimir Bukovskij e Vladimir Maximov danno voce alle ragioni del dissenso russo, iniziando a tessere un filo che da allora non si è mai spezzato. Già l’anno successivo, per esempio, al Meeting arriva il teologo ortodosso Olivier Clément, ma le giornate riminesi sono anche l’occasione per ascoltare la testimonianza di uno dei maggiori filosofi europei del momento, Emmanuel Lévinas. Nel 1983, terza edizione, ci sono l’ebraista André Chouraqui e l’antropologo Julien Ries, la medievista Régine Pernoud e il premio Nobel per la Fisica Abdus Salam. E c’è, più che altro, Giovanni Paolo II. Il Papa non si limita a pronunciare un intervento che insiste sui temi fondamentali del suo pontificato (la dignità del lavoro, la centralità della famiglia), ma si impegna in un serrato botta e risposta con il popolo del Meeting. «Mi hanno detto: “Tu devi venire a Rimini e noi ti ascolteremo” – commenta scherzosamente –. Invece la realtà è un po’ diversa: “Tu devi venire a Rimini e noi sì ti ascolteremo, ma ti esamineremo a fondo…”». Anche queste sono parole che potrebbero essere sottoscritte dai relatori eccellenti che nel corso degli anni si sono susseguiti sulla scena del Meeting. Il filosofo Jean Guitton e il regista Andrej Tarkovskij, il suo collega Krzysztof Zanussi e il teologo Hans Urs von Balthasar, Giorgio Gaber e Giovanni Testori, Sergio Zavoli e Franco Battiato, il pittore William Congdon e il Dalai Lama.  Che per farsi conquistare dal Meeting non occorra appartenere a Cl, del resto, lo si era capito già nell’87, con la partecipazione contemporanea di Madre Teresa di Calcutta e di Eugène Ionesco, il grande drammaturgo che sarebbe tornato a Rimini l’anno successivo per l’anteprima mondiale del suo Maximilien Kolbe e poi ancora una volta, nel ’90, per assistere alla messa in scena di uno dei suoi capolavori, Il Re muore. A proposito di re: ripercorrere la storia del Meeting come evento culturale non significa dimenticare l’importanza – a tratti sovrastante, almeno dal punto di vista del resoconto giornalistico – che la politica ha rivestito e in parte continua a rivestire nell’equilibrio della manifestazione. Non potrebbe essere altrimenti, probabilmente, se non altro per ragioni di protocollo istituzionale. Ma ciò non toglie che perfino nei periodi di più incandescente confronto politico la dimensione culturale non sia mai venuta meno. Basta riandare alle locandine di metà anni Novanta, nel pieno tumulto da Seconda Repubblica, per ritrovare i nomi dell’attrice Liv Ullman, del maestro Riccardo Muti e del critico d’arte Federico Zeri.  Nel tempo il Meeting è cambiato molto, non si discute. I titoli delle varie edizioni sono stati, di volta in volta, straordinariamente stringati e proverbialmente lambiccati (a dettare la linea fu a lungo la tripletta dell’85: Parsifal, la Bestia, Superman), per tornare in questo 2016 alla semplicità assoluta dell’ammissione Tu sei un bene per me.  L’attenzione alla cultura, però, non è mai venuta meno, declinata  attraverso una gamma di temi e filoni che vanno dall’astrofisica all’archeologia del Vicino Oriente, dall’arte sacra alla sperimentazione teatrale, dalla musica colta alla tradizione letteraria e spirituale della nazione russa. Lo scorso anno, contro ogni previsione, perfino l’altrimenti impervio linguaggio dell’arte contemporanea è stato accolto con inatteso favore, grazie alla proposta antologica della mostra Tenere vivo il fuoco, la più visitata dell’edizione 2015. Non è soltanto eclettismo, tanto meno desiderio di assecondare mode e opportunismi. È, al contrario, una questione di fedeltà allo spirito del fondatore di Cl, don Luigi Giussani, il cui talento pedagogico non ha mai smesso di ispirare la struttura del Meeting. Tra i percorsi espositivi della trentasettesima edizione, che si inaugura oggi alla presenza del presidente Sergio Mattarella, uno merita, in questo senso, particolare attenzione. Si tratta di quella che rievoca l’esperienza di Milano Studenti, la rivista che nel passaggio tra anni Cinquanta e Sessanta accompagnò la nascita e lo sviluppo di Gioventù Studentesca, primo nucleo del movimento di Cl. Sfogliando il catalogo curato da Gianpiero ed Ester Gamaleri per Itaca sotto il coordinamento editoriale di Eugenio Dal Pane, ci si imbatte tra l’altro nella lettera inviata nel 1963 da Italo Calvino a Cesare Colombo e Giulia Contri, che su Milano Studenti avevano recensito La giornata di uno scrutatore. Un libro potenzialmente controverso, costruito com’è sul confronto tra un militante comunista e il mistero doloroso della Piccola Casa della Divina Provvidenza a Torino. Amerigo, lo scrutatore del titolo, entra al “Cottolengo” con il suo bagaglio di convinzioni ideologiche (siamo nel 1953, il Pci sembra più forte che mai) e ne esce quasi turbato, senz’altro commosso dalla dedizione di cui è stato spettatore. In questa parabola i recensori del mensile di Gs riescono comunque a riconoscere l’affiorare di «presentimenti di luce» che pure non contraddicono la formazione marxista dello scrittore. L’apprezzamento di Calvino è racchiuso nella parte centrale della breve lettera: «Trovo che avete interpretato sempre rettamente il mio pensiero, indipendentemente dalle vostre valutazioni ideali; che non avete mai forzato quello che dice il testo (e davvero io avevo cercato di pesare bene ogni parola); e che avete saputo mettere in luce tutti i punti chiave e anche (vorrei dire) i silenzi, quello che non ho detto perché potevo dire solo quello che sentivo e non di più». Al Meeting l’autore delle Città invisibili non ha mai partecipato. Eppure, prima ancora che la manifestazione riminese venisse immaginata, ne aveva capito lo spirito. Forse perché anche lui, in fondo, di popolo si intendeva.
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