martedì 9 febbraio 2016
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​Non si capisce molto l’agitazione scomposta di parte dei parlamentari 5Stelle contro la libertà di coscienza sulle unioni civili indicata da Grillo. Anche perché, custodi – come dovrebbero – dell’assenza di vincolo di mandato prevista in Costituzione, tanto più su questioni eticamente sensibili, quella libertà di coscienza avrebbero loro dovuto rivendicarla dai vertici del Movimento, e non farsela indicare. Grillo e Casaleggio hanno fatto una scelta di “buona politica”. E non perché “politica” nel senso di rifiutarsi di fare da stampella al Pd su un provvedimento a rischio, cosa che per altro, dal loro punto di vista, sarebbe legittima, essendo forza di opposizione. Ma perché rimette al centro del dibattito parlamentare gli intimi convincimenti dei singoli parlamentari, come la materia richiede, e non i vincoli di partito e di schieramento. Per altro libertà di coscienza per i parlamentari 5Stelle vuol dire anche libertà di poter votare tutti, se ognuno singolarmente lo ritiene, a favore del ddl Cirinnà così com’è, stepchild adoption inclusa.
 
Non si capisce allora davvero la grancassa sull’illibertà nel Movimento 5Stelle, una volta tanto che la libertà la si vede! E più in generale, notazione che non riguarda solo i 5Stelle, non ci può essere su ddl Cirinnà una libertà di coscienza di “serie A”, quella d’accordo con il testo così com’è in obbedienza o convenienza ai desiderata di governo o di maggioranza o anche di opposizione, o di “serie B”, quella che non corrisponde ai desiderata indirizzati, quali che siano. La libertà di coscienza ha una sua coerenza logica; ed è difficile argomentare che due più due fa quattro ma che per ragioni politiche deve fare cinque per forza, se no “si perde la faccia” o “l’accordo non tiene” o “si fa un favore al governo”. Se questa materia è parlamentare, sia il Parlamento a trovare la sintesi più larga per far arrivare in porto la legge. Sintesi – è nelle cose – che potrebbe ben trovarsi su un testo senza inghippi costituzionali con equiparazioni surrettizie al matrimonio e che non preveda la stepchild adoption.
 
Con l’approccio “o così o niente”, si aggiungerebbe errore a errore. Se si voleva un minimo comun denominatore, sul testo da portare in aula, che non esponesse a rischi la legge, questo non avrebbe dovuto prevedere la stepchild adoption, che avrebbe ben potuto essere proposta in aula da chi lo ritenesse, verificandone il consenso possibile, senza tirare in ballo equilibri o credibilità di governo. Per altro, dai sondaggi, questo minimo comun denominatore, sarebbe stato e sarebbe in una “connessione sentimentale” con il Paese, che è favorevole alle unioni civili, ma non a equiparazione al matrimonio e adozioni. Tema che c’è, nelle “famiglie arcobaleno”, e che nessuno intende negare nella sua rilevanza morale e giuridica, che attende risposte. Che però possono essere date con più garanzie per tutti, anche per le convivenze omosessuali, quando ci sia vantaggio dei minori, in una rivisitazione complessiva ed erga omnes, eterosessuali e omosessuali, della disciplina delle adozioni, in un contesto inedito delle modalità di filiazione e di natalità. Non pretenda la politica di far nascere in Parlamento, con il forcipe, una maggioranza che non c’è nel Paese, con un intento politico-pedagogico di cui non si vede il bisogno.
 
*Ordinario di Filosofia teoretica, Università Federico II
Componente dell’Assemblea nazionale del Pd
Già deputato nella XVI legislatura
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