mercoledì 13 luglio 2016
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Da quasi trent’anni si aspetta inutilmente che l’Italia introduca nel codice penale la previsione specifica di un reato di tortura, per colpire come si meritano dei fatti, oggi puniti troppo blandamente o addirittura destinati a rimanere impuniti nel contesto delle norme che in altro modo mirano a tutelare l’incolumità, la dignità o la libertà fisica o morale delle persone. Eppure si tratta, non solo di un imperioso dovere morale, ma anche di un preciso obbligo giuridico di carattere internazionale, derivante dalla Convenzione Onu di New York del 1984, ratificata dall’Italia nel 1987 e però lasciata senza il corollario di una legge ad hoc che vi desse compiuta attuazione. In queste settimane sembrava che una legge avente un tale scopo stesse finalmente per tagliare il traguardo conclusivo, ma tutto è tornato in forse per il persistere di forti contrasti tra le forze politiche; e uno dei nodi più controversi investe la stessa definizione legale delle condotte la cui messa in opera sia da considerare concretizzatrice di quel crimine. Tutti (o quasi) d’accordo, sì, sul dar rilievo a «violenze» o «minacce» che provochino «acute sofferenze fisiche o psichiche» in persone giacenti in condizioni di soppressa o ridotta autonomia comportamentale; ma – ecco il punto di discordia – perché si configuri quel delitto occorre altresì che le minacce siano «gravi» e le violenze «reiterate»? Nei vari passaggi parlamentari attraverso i quali il testo è transitato, le soluzioni si sono più volte contrapposte, e il contrasto è clamorosamente riesploso dopo l’ultimo passaggio dalla Camera al Senato. Data la rilevanza etica e civile dell’argomento, dispiace che il caso sia diventato l’occasione per una delle solite polemiche di non altissimo profilo sul modo in cui si fanno e si disfano le maggioranze parlamentari. Possono invece comprendersi le preoccupazioni manifestatesi nell’ambito delle forze dell’ordine, circa il rischio che tra le maglie di una descrizione priva di distinguo s’incuneino interpretazioni e applicazioni viziate da pregiudiziale avversione nei loro confronti, così da trasformare in crimini anche legittimi usi della coercizione contro altrui condotte violente. Però, come si può pretendere che, per aversi tortura, la violenza «di autorità» debba necessariamente esprimersi, sempre uguale a se stessa, in più momenti distinti (perché questo è il senso più naturale della «reiterazione»)? Ne verrebbero, al contrario, vistosi margini di indulgenza, anche per vere e proprie ignominie. Si dovrebbe comunque tenere presente il tenore dell’art. 1 della Convenzione di New York, che nel dare la definizione basilare di ciò che deve intendersi per «tortura», fa riferimento a ogni «atto» – al singolare – che provochi le sofferenze di cui si è detto, lasciando, al diritto interno e a quello di ulteriori convenzioni internazionale, spazi per eventuali aggiunte integrative, ma soltanto se volte a reprimere maggiormente gli abusi contro le vittime, non a garantire maggiormente l’impunità a chi le abbia tra le mani. E l’Italia è stata più volte richiamata, dai competenti organismi dell’Onu e del Consiglio d’Europa, non soltanto a rompere la sua inerzia normativa, ma a farlo osservando scrupolosamente, nella legge tanto sollecitata pure in tali sedi, quanto stabilito in quella Convenzione; non senza che, almeno in un’occasione, di fronte a una versione del progetto di legge, che già faceva riferimento alla «reiterazione» delle violenze come condizione di esistenza del reato in questione, si giungesse a bollarla come qualcosa che «restringe(va) in maniera eccessiva la nozione di tortura»: così il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura del 27 aprile 2006. Non dimentichiamo del resto un altro dato. Se fino a qualche tempo fa l’Italia era sempre sfuggita a condanne per violazione del perentorio divieto di tortura di cui all’art. 3 di un’altra Convenzione europea internazionale (quella europea dei diritti dell’uomo), questo vanto non può più essere esibito, dopo la sentenza della Corte competente che – sulla base, purtroppo, di una documentazione ineccepibile e di una rigorosa argomentazione – ha preso in esame quanto successo alla scuola Diaz in occasione del vertice genovese del G8 del 2001. E, in tale occasione, i giudici di Strasburgo non sono arretrati dalla censura più severa nei confronti del nostro Paese sol perché certe nefandezze furono compiute, con atti diversi e senza soluzioni di continuità, nell’unico contesto locale e temporale di quella tragica notte.
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