mercoledì 27 aprile 2016
​La testimonianza di un collaboratore del giudice ragazzino: per lui la Natura un dono di Dio che noi trascuriamo.
«Vero amico dell'ambiente»: il Livatino inedito
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«Il primo incontro col giudice Rosario Livatino fu fantastico». Sì, usa proprio questo aggettivo Domenico Bruno, commissario del Corpo forestale regionale siciliano, per ricordare la sua collaborazione col 'giudice ragazzino' ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Era il 1983 e il magistrato già allora era molto attivo nel contrasto a chi attentava all’ambiente, a chi distruggeva la natura. Con una forte sensibilità che anticipava i tempi. Bruno, allora giovane maresciallo e comandante del distaccamento forestale di Agrigento, ci racconta questo impegno. Una storia inedita. «Mi colpì subito l’attenzione a quei principi di amore per la terra che ritrovo in Papa Francesco. Parlava della 'nostra madre terra' e diceva: 'Dio ci ha fatto questo dono e noi lo trascuriamo'. Davvero aveva una grande passione per questo tema. E addirittura andava in giro per conoscere la natura del nostro territorio». Una sensibilità che Livatino trasferì nel suo lavoro di magistrato. «Allora – ricorda Bruno – occuparsi di ambiente era un tabù, anche per la magistratura. L’attenzione che avrebbe dovuto esserci invece mancava. C’erano parecchie connivenze e lui l’aveva capito». Fu proprio una vicenda di connivenze in campo ambientale a farli conoscere. «Avevo mandato in Tribunale una notizia di reato relativa a un incendio doloso di un rimboschimento a Licata, zona a forte densità mafiosa. Invece di mettere le piante avevano messo dei 'cippi', dei semplici ramoscelli. Ma prima della verifica del lavoro, tutto era stato bruciato, per far sparire le prove». Questa vicenda interessò subito il giovane magistrato. «Mi chiamò per fare delle ulteriori indagini, perché sospettava una complicità tra la ditta che aveva eseguito il rimboschimento e funzionari regionali. Così indagò il direttore dei lavori e un dipendente regionale». Da lì partì una stretta collaborazione tra Livatino e Bruno. «Era molto interessato agli incendi boschivi. Erano tanti, troppi. E non scoppiavano a caso. Lui scavava in quelle vicende. Non guardando solo a chi appiccava le fiamme, ma anche a chi c’era dietro. Il giudice Livatino era l’unico ad avere questa prospettiva».  Il tema lo appassionava e ci si era impegnato. E voleva conoscere tutto. «Così gli portai alcuni volumi con le leggi regionali sugli incendi. Ricordo che mi disse: 'Domani torni a riprenderli'. Io pensavo che fosse troppo presto e gli diedi qualche giorno in più, ma davvero aveva letto tutto in un giorno. Studiava molto, non si fidava e voleva verificare di persona». Anche perché il mondo della gestione forestale e del servizio antincendio era inquinatissimo. E Livatino ci lavorò a lungo. «C'era un piano regionale anti-incendi che nessuno attuava – è il ricordo del forestale –, non c’era prevenzione e la qualifica del personale era clientelare. I ranghi dei forestali erano pieni di mafiosi e alcuni di loro furono ammazzati. C’era manovalanza spicciola, dietro però si nascondevano interessi speculativi, politico/economici a partire dall’abusivismo edilizio. Il dottor Livatino l’aveva capito benissimo. Era davvero un magistrato molto attento a queste tematiche. Era unico. Da magistrato andava oltre il suo dovere. Era profondo, difendeva 'Madre Natura'. Per questo era così odiato dai mafiosi». E qui la voce di Bruno si incrina per l’emozione. «Non sono mai riuscito a dargli del tu. Per lui provavo affetto, pur in un rapporto professionale». Ricorda il giorno dell’omicidio. «Quel giorno potevo essere lì. Spesso lo incrociavamo proprio in quel luogo, noi con la Fiat Campagnola di servizio e lui con la sua Fiesta. Era solo, come un comune cittadino. Dicevo ai colleghi: 'Ma come fa?'. Ma non mi permettevo di dirlo a lui». E arriva quel 21 settembre di 26 anni fa. «Ero stato convocato a Palermo e quindi quel giorno non passai alla solita ora. Al ritorno vidi tante auto delle Forze dell’ordine e capì subito che era successo qualcosa di grave». I ricordi si affastellano mentre gli occhi di Bruno si inumidiscono. «La sera partecipai alla fiaccolata ad Agrigento. Sapevo che il giudice aveva toccato interessi importanti. Ma i vigliacchi e i venduti erano e sono anche al nostro interno». E il ricordo diventa personale. «Sentivo che era una grande perdita. Anche per me. Ci penso sempre, ma ci penso positivamente. E ancora mi emoziono». Dopo quella drammatica giornata Bruno non ha però smesso di indagare sui nemici dell’ambiente: ecomafie, abusivismo, cemento. E per due anni dopo l’uccisione di Livatino finì lui sotto scorta per un’inchiesta sui rifiuti. Ma le vite del magistrato e del forestale sono tornate a incrociarsi dopo la pensione. «Quando passò alla giudicante il dottor Livatino si occupò moltissimo della confisca dei beni dei mafiosi. E anche qui non ci andò leggero. Addirittura confiscò 250 ettari a gente del suo paese, Canicattì». In particolare, alcuni terreni a Naro nelle contrade Gibbesi e Virgilio. «Conoscevo bene quel 'feudo' – ricorda ancora Bruno –. Così quando nel 2004 sono andato in pensione, ho deciso di collaborare con Libera e proprio per i beni confiscati. E proprio per quel bene». Nella provincia di Agrigento ci sono 260 beni confiscati e assegnati ai comuni ma, denuncia Bruno, «quasi nessuno è stato destinato. Quel 'feudo' era ipotecato per 5 milioni di euro con due banche. Allora mi sono dato da fare. Così siamo riusciti a salvare prima 100 ettari e poi tutto il resto. Ero molto soddisfatto di lavorare per qualcosa di cui si era occupato il giudice. Su quel bene ci ho messo tutto me stesso così si è completata la sua opera». Parole che riportano la commozione sul viso dell’ex investigatore. Anche perché proprio su quei terreni nel giugno 2012 è nata una cooperativa di giovani che porta il nome di Rosario Livatino ed è sorta una base scout dell’Agesci intitolata a Antonino Saetta, altro magistrato ucciso dalla mafia, nel 1988, e amico di Livatino. Bruno ha saputo della lettera che Domenico Pace, uno dei killer di Livantino, ha scritto al Papa per chiedere perdono. E ha qualche dubbio. «Da cattolico non mi permetto di giudicare. Certo, il perdono c’è per tutti, ma dopo così tanti anni...». E tanti anni, ancor di più, sono trascorsi da quel primo incontro 'fantastico', eppure il ricordo del 'giudice ragazzino' è ancora vivissimo. Non solo professionale. «Lo vedevo fare quotidianamente il tragitto dalla chiesa di San Giuseppe, dove si fermava a pregare, e il tribunale. 'Martire della giustizia e indirettamente della fede', lo definì Giovanni Paolo II. Una determinazione così forte come la sua doveva per forza avere qualcosa dietro, una fede profondissima». E Papa Wojtyla torna nell’ultimo ricordo. «Ero nella Valle dei Templi con mia moglie e i due figli quando Giovanni Paolo II lanciò la sua invettiva contro la mafia. Fu una grande emozione. Finalmente qualcuno gettava un sasso nello stagno. Pensai: 'L’ha fatta proprio grossa!'. Seppi poi che poco prima il Papa aveva incontrato i genitori di Livatino ed era rimasto molto toccato...». Già, di nuovo un incontro 'fantastico'.
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