domenica 23 novembre 2014
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La fede biblica non è necessaria soltanto agli uomini: serve anche a YWHW per non essere trasformato in un idolo, per non tornare un ordinario Elohim senza nome. Sul Sinai sì è operata una rivoluzione antropologica, culturale, sociale di portata epocale. Lì l’umanità ha raggiunto un nuovo stadio nel suo processo di umanizzazione, grazie a una esperienza religiosa radicalmente altra da quella che facevano popoli diversi, con i loro dèi semplici o con i loro muti idoli di legno. Ma alle pendici di quello stesso monte si è svolta anche la più grande crisi del popolo uscito dall’Egitto in cammino verso la terra promessa, che contiene uno straordinario insegnamento sulla malattia più grave di ogni esperienza religiosa o ideale: la sua riduzione a idolatria.  La trasformazione di YHWH in un toro aureo è un messaggio forte rivolto a tutte quelle persone, comunità, istituzioni che sono date da un 'carisma', che sono stati raggiunte e abitate da una voce che le ha chiamate a un compito, che ha annunciato loro una promessa diversa e più grande. In queste esperienze e in queste persone è sempre forte il fascino di ridimensionare e normalizzare la chiamata e la promessa, di ridurre il mistero a banale evidenza – un fascino-tentazione che agisce e opera per tutta la vita, e diventa particolarmente tenace nella sua ultima fase. ll Dio che si era rivelato a Mosè non si vedeva, non si toccava, non appagava i sensi. Nemmeno Mosè lo vedeva (lo vedrà solo un attimo, e di spalle), ascoltava solo la sua parola. YHWH era, e continua a essere, una voce. Tutti gli altri popoli avevano dèi con immagini chiare, naturali, immediate. Tutti tranne il popolo di Israele, che aveva ricevuto il dono dell’Alleanza da un Dio tutto diverso e tutto nuovo. Per 'vederlo' e 'sentirlo' c’era bisogno di una duplice fede: in Mosè e nella voce che gli parlava. La lotta religiosa più difficile di Israele non è stata quella combattuta per non abbandonare YWHW per darsi agli dèi (Baal o Astarte). YHWH era nelle radici del popolo, ne custodiva la stessa identità, e anche dopo i tradimenti il popolo riusciva a tornare al suo solo e unico Dio. La sua grande tentazione è stata un’altra: perdere la novità della sua fede, ridurre quel Dio diverso e nuovo in un dio più facile, più comprensibile, più gestibile col solo buon senso e più semplice da raccontare agli altri e a se stesso. È questo il grande e forse il principale messaggio dell’episodio del 'vitello d’oro', uno dei racconti più straordinari e centrali dell’intera Bibbia. Quel vitello costruito da Aronne e dal popolo alle pendici del Sinai, non è un altro dio, né un idolo: il nome del vitello manufatto è YHWH: «Allora dissero: 'Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto!'. Ciò vedendo, Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: 'Domani sarà festa in onore di YHWH'»(Esodo 32,4-5).Dopo il dono del decalogo, del codice dell’Alleanza, del settimo giorno, Mosè scende dal Monte per ricevere il 'sì' solenne del popolo all’alleanza: «'Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!'» (24, 3). E quindi, «di buon mattino» (23,4), risale sul monte richiamato dalla stessa voce, come fece Abramo quando salì sul monte Moria con Isacco, o come quando si alzo «di buon mattino» per preparare Ismaele prima di abbandonarlo, con la madre Agar, nel Deserto di Sur: «Mosè entrò in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimane sul monte quaranta giorni e quaranta notti» (24,18). Mosè resta a lungo sul Sinai, riceve da YHWH istruzioni dettagliatissime sulla costruzione dell’arca, del tempio, dell’altare, del candelabro, sugli abiti dei sacerdoti (capp. 25-31), indicazioni che terminano con il dono delle tavole di pietra (31,18). Il vitello viene eretto durante l’assenza di Mose, che «tardava a tornare». Noi, lettori della Bibbia, sappiamo dunque che Mosè rimane sul monte per quaranta giorni e poi scende. Il popolo però non sapeva né se né quando sarebbe tornato. E se vogliamo rifare veramente l’esperienza del popolo, se vogliamo sentire il fascino sbagliato ma forte del dio semplice e visibile, e poi imboccare nuovamente, feriti, la via di casa, dobbiamo anche questa volta leggere queste pagine come fosse la prima volta. Non dobbiamo sapere se il Dio d’Israele resterà per sempre intrappolato nel vitello d’oro, né se e né quando tornerà Mosè. Così, mentre sopra il monte si svolge il dialogo sulla costruzione dell’arca e del santuario, il popolo in basso fa esattamente l’opposto di quanto aveva solennemente promesso a Mosè-YHWH pochi giorni prima («Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!»). Nell’assenza del suo profeta, e nell’incertezza del suo ritorno, il popolo che aveva visto i segni e la nube sul monte, Aronne, i settanta anziani che avevano addirittura 'visto' Dio, danno un’immagine al loro Dio: «Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte, fece ressa intorno ad Aronne e gli disse: 'Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto'... Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani, li fece fondere in una forma e ne modellò un vitello di metallo fuso» (32,1-4). Il liberatore, il Dio della voce, il Dio diverso, viene trasformato in uno stupido vitello costruito con il loro oro che doveva costruire la sua Arca (25,3). Gravissima è l’adorazione del vitelloidolo; più grave ancora è l’adorazione del vitello-YHWH.Il popolo d’Israele ha fatto sempre una grande fatica a salvare la sua religione-fede diversa. Il suo è il Dio della vita che però non può essere rappresentato con i simboli della vita e della fertilità (tori, donne); è il Dio della voce che però solo Mosè riesce ad ascoltare; è il Dio che ha svelato il suo nome, un nome però impronunciabile. Troppo diverso, troppo nuovo. La principale fatica e il travaglio più grande di chi – persona o comunità – ha ricevuto una vocazione – artistica, civile, scientifica, religiosa... – non è resistere alla tentazione di imitare le vocazioni degli altri (c’è anche questa, ma non è la più pericolosa quando la vocazione è vera), quanto piuttosto di ridurre o eliminare il portato specifico della chiamatacarisma ricevuta. Perché durante le crisi – e durante l’assenza dei profeti – è sempre forte la seduzione di semplificare e normalizzare il proprio compito e la propria vocazione. La possibilità di perdere la fede nel dono che si è ricevuto, la fiducia in quel dono con un nome e con una voce. La fede, questa fede, è anche esperienza tutta antropologica: è continuare a credere alla parte migliore di sé, di noi, a non ridurla ai gusti dei 'consumatori' e dei 'clienti', di contenerla tutta dentro l’orizzonte dei nostri limiti – anche per questa ragione una cultura senza una fede non riesce a fiorire.  Chi ha ricevuto una vera vocazione sa e sente che quella vocazione-carisma è iscritta nel proprio essere. Non si esce da questo tipo di vocazione 'identitarie'. Qui la tentazione vera e più subdola è allora ridurla ad altro, lasciarle il 'nome' cambiandone il contenuto. Si esce da una alleanza, da una chiamata, da un carisma non solo andandosene: l’uscita senza ritorno è quella di chi resta in qualcosa di diverso che però continua a chiamare con l’antico nome della giovinezza. In queste uscite-senzauscita non si torna più 'a casa'. Finché YHWH resta YHWH e il vitello resta un idolo, è possibile convertirsi anche dopo lunghe stagioni di lontananza. È quando riduco YWHW a vitello che la possibilità della conversione è persa per sempre, che non è più possibile nessuna conversione e nessuna ri-conversione. Possiamo sperare di tornare a casa finché non perdiamo la capacità di distinguere le ghiande dei maiali dal cibo della tavola paterna. Dalla strada che abbiamo imboccato per seguire le seduzioni dei nostri idoli si può tornare sempre indietro verso casa, perché la via di ritorno è viva nelle carni della nostra nostalgia di verità. È dalla vocazione-carisma ridotta a nostra immagine e somiglianza che non c’è via di ritorno, perché non c’è più nessun luogo verso cui tornare. Si può tornare a riamare la verità finché la distinguiamo dalla bugia, degli altri e nostra. La fatica di chi custodisce una vocazione è non chiamare con il nome della prima voce i nostri comodi e innocui manufatti che nel frattempo abbiamo fabbricato, anche quando quei manufatti nel tempo erano diventati gli unici compagni per non morire di solitudine.   I vitelli d’oro arrivano quasi sempre durante l’assenza dei profeti. È anche questo un messaggio forte di questo grande capitolo dell’Esodo. L’idea giusta e vera di Dio e di noi stessi è molto legata al volto raggiante dei profeti che rischiarano le nostre giornate e le nostre anime. Finché essi ed esse sono in mezzo a noi, riusciamo a intravvederesenza- vedere il volto vero di Elohim e il nostro, a percepire qualche suono della sua voce buona e vera fuori e dentro di noi, a riconoscere segni di vita e di fecondità ovunque. Quando invece mancano, arrivano i vitelli d’oro a colmare un vuoto che diventa troppo grande. Forse oggi avremmo meno idoli e meno servitù se i 'profeti' fossero stati più presenti nella politica, nell’economia, nei luoghi ordinari del vivere. La Bibbia ci ha salvato dall’inevitabilità dell’idolatria custodendo per noi un’idea di Dio non ridotta alla misura dei nostri manufatti. Ma senza la presenza e senza i volti dei profeti finiamo per trasformare le fedi in idolatrie, le vocazioni in semplici mestieri, di perdere la via di casa. Tornate profeti, scendete dal monte. Non fermatevi nei templi e nei santuari: scendete fino alle nostre piazze, alle nostre scuole, arrivate dentro le nostre imprese ferite.  Tornate a parlarci del vostro Elohim diverso, a liberarci dai nostri culti troppo banali per poter essere buoni, veri, liberatori.
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