domenica 26 luglio 2015
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Le forti parole di papa Francesco in occasione dell’annuale assemblea primaverile della Conferenza episcopale – e in particolare il suo accorato appello all’impegno dei laici – hanno suscitato, come era prevedibile, numerosi commenti e, in generale, ampi consensi (documentati anche dagli interventi apparsi via via su 'Avvenire'). Sia lecito inserire tra questi schietti consensi anche quello di uno dei non molti testimoni della prima generazione conciliare ancora 'sulla breccia'. A me pare che nel rivolgere il suo appello ai laici, il Papa abbia voluto prestare una particolare attenzione ai laici italiani che ha fortemente sollecitato all’impegno.  Il Pontefice, tuttavia, non si è sottratto al dovere di ricercare anche le cause di un certo disimpegno e, all’interno della più ampia riflessione rivolta ai vescovi, le ha identificate da una parte nel «diffuso indebolimento della collegialità» e dall’altra nella scarsa abitudine di «verificare la ricezione dei programmi e l’attuazione dei progetti». Vale la pena di riflettere, da un punto di vista laicale, su questi due limiti che Francesco ha indicato esercitando uno sguardo dichiaratamente planetario.  Vi è una dimensione della «collegialità» di precisa pertinenza dei laici, ed è quella che fa riferimento ai Consigli pastorali. Condizionati da una non felice scelta dello stesso Vaticano II che, come è noto, ha reso 'obbligatori' i Consigli presbiterali e 'facoltativi' i Consigli pastorali (di fatto collocando questi un gradino più sotto…). Così, molti pastori hanno scarsamente valorizzato l’unico luogo nel quale i laici potessero avere autorevolmente voce a livello diocesano. Si è eccessivamente temuto l’insorgere della conflittualità, senza domandarsi se non vi fosse il rischio che essa – esclusa dai luoghi istituzionali – si trasformasse, alle periferie, in mugugno o in disimpegno. Come dunque 'rigenerare' i consigli pastorali e accordare a laici preparati e responsabili (e non soltanto 'obbedienti') quello spazio che l’ecclesiologia del Concilio loro riconosce?  Quanto ai convegni ecclesiali – dai decennali appuntamenti avviati a Roma a partire dal 1975 alle Settimane sociali e alle numerose iniziative, nazionali e diocesane – si è veramente dato posto ai laici, anche a quelli critici e problematici, capaci di dire – come raramente avviene in ambito ecclesiale – pane al pane e vino al vino? Sono, quelli citati, soltanto due esempi. Ma ci si potrebbe domandare se il disimpegno ecclesiale e civile spesso denunziato dai vescovi non debba essere ricondotto anche ad alcuni limiti dell’azione pastorale. Faccio altri due esempi.  Si lamenta frequentemente, oggi, il disimpegno dei cattolici dalla vita pubblica; ma per diversi decenni la Chiesa italiana aveva puntato, in una fittissima serie di documenti, sull’unità politica dei cattolici ed essa stessa, così come i cristiani, si è trovata spiazzata dopo la fine della Dc. Sarebbe stato necessario attrezzarsi per tempo per affrontare la nuova situazione, ma ciò è avvenuto solo marginalmente e senza grandi risultati, come emerge dall’incidenza in generale non fortissima delle scuole di formazione socio-politica.  Non meno indicativa la linea seguita dall’istituzione ecclesiale nel fronteggiare la seria crisi numerica del clero (per fortuna soltanto tale, e largamente compensata dalla generosità e dalla passione dei nostri presbiteri). Solo in alcune realtà e da parte di pochi pastori ci si è domandati se figure come quelle dei biblisti laici, degli esperti di catechesi laici, degli animatori di comunità laici (uomini e donne) non potessero degnamente entrare in campo, non a titolo di obbligata 'supplenza' ma in nome della comune chiamata dei fedeli a servizio della comunità.  In conclusione, siano generosi i laici a raccogliere l’appello del Papa e siano lucidi e coerenti i pastori nel porre le condizioni di questo impegno.
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