mercoledì 12 novembre 2014
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I nostri ragazzi non fanno domande, perché? Una idea ce l’ho. Ma la devo dire piano. Spesso si sente dire che i nostri ragazzi, nelle Università ma non solo, non fanno domande. Non fanno domande a lezione, spesso non usano dei momenti di colloquio coi docenti. O lo usano per avere qualche informazione. E molto spesso mi sono sentito dire prima di fare una conferenza o una lettura di poesie a dei giovani: «Sai, poi non fanno mai domande». Previsione sempre peraltro smentita. Ma questa faccenda dei giovani che avrebbero smesso di fare domande mi incuriosisce. Se i giovani smettono di fare domande, e gli adulti smettono di essere inquietati, messi in questione dalle loro domande, una società si isterilisce e si spacca, si divide in generazioni che non si passano cose, ma stanno tra loro come faglie che si urtano. L’ho sentito ripetere da docenti di diversi atenei. Anche se naturalmente non mancano eccezioni. L’ultima volta che una brava docente universitaria me lo ha detto, le ho domandato: «Ma ti sei chiesta perché?». La sua faccia un po’ perplessa e l’abbozzo di risposta («forse per timore reverenziale...») mi ha confermato che no, non ci aveva pensato su granché.  Perché un giovane non fa domande all’adulto che è lì – o almeno dovrebbe essere così – per lui, per insegnargli qualcosa? Ci sono molte cause ambientali, diciamo così. Sicuramente, il fatto che l’università anche italiana abbia deciso di organizzarsi secondo lo schema 'a crediti', ha spesso reso la vita e il tempo degli studenti secondo un ritmo 'fai e incassa' rispetto al quale ogni surplus di interesse sembra, appunto, in più. Da questo, e da una certa riduzione impersonale, o più esattamente, funzionale del rapporto con il docente, visto come una specie di erogatore di servizi/crediti, il valore del fare domande viene frustrato o non incoraggiato. Ma la mia idea è che – al di là dei condizionamenti ambientali – ci sia sotto una questione enorme.  Il fatto è che le persone smettono di fare domande quando non si sentono (più) a rischio. Intendo dire che il genere di domanda e di curiosità dipende dal tipo di rischio che vivi. Se l’unico rischio che pensi di correre è quello di perdere la pensione o il lavoro, o fosse pure il rischio di perdere qualche buona occasione, rivolgerai domande di quel genere. Ovvero, nel caso del rapporto docente/ragazzo nasceranno tutt’al più domande limitatamente al servizio che il docente sta facendo, e se si possono evitare tanto meno disturbo per tutti. Al massimo si chiede di erogare bene quel servizio.  Nessuna curiosità in più o domanda di altro approfondimento, di apertura. Se invece avverti che la vita è un rischio totale che riguarda il perdere te stesso (l’anima, si dice) allora ogni occasione di confronto con qualcuno di autorevole, fosse pure in un settore particolare della vita, diviene occasione di curiosità e di scoperta. Se stai rischiando te stesso vivendo, ogni occasione è buona per imparare a farcela. Come Dante che nella selva oscura grida la sua domanda verso Virgilio, chiamato «lo mio autore». Ma se non mi sento nella selva, cosa me ne faccio di un «autore»? Di uno autorevole?  L’altra faccia della medaglia, infatti, riguarda la autentica autorevolezza. Non basta avere la targhetta 'prof' per essere avvertito autorevole da un giovane. Occorre, come Virgilio per Dante, essere percepito come uno che ha vissuto lo stesso rischio e che lo rivive. A nessuno che stia correndo un rischio vero (e un giovane, per quanto confusamente vive l’età del rischio) viene voglia di chiedere qualcosa a chi tale rischio sembra che non sappia cosa sia. Se non ti giochi l’anima di fronte ai ragazzi che hai di fronte, come pretendi che ti facciano vere domande? Al massimo chiedono qualche servizio in più. Aver diminuito spaventosamente il senso del rischio che si corre vivendo, averlo ridotto a un mero rischio di carriera o di successo, ha diminuito la dose di domanda. Allo stesso modo vale per la lettura: se non mi sento a rischio perché cercare autori? La lettura non cala solo perché i libri costano o per colpa di internet. Aver cacciato gli uomini dal grande rischio dell’anima li ha resi meno interessati a tutto.
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