martedì 13 settembre 2016
​Oggi i ministri della Difesa e degli Esteri riferiranno in Parlamento sulla missione dei 300 soldati italiani a Misurata per aprire un ospedale. Resta l'incognita del generale che ha sfilato al governo i pozzi petroliferi. Giorgio Ferrari
Libia, la variabile Haftar e la missione italiana
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La chiamano 'Mezzaluna petrolifera', a indicare il tratto di costa tra Sirte e Bengasi che va da Agedabia passando per al Sidra e Ras Lanuf fino al porto di al Zuwetina, ma il garbato eufemismo non basta a nascondere una realtà che è sotto gli occhi di tutti: il fatto cioè che alla vigilia della missione militare italiana a Misurata il governo libico di unità nazionale sostenuto dall’Onu che fa capo a Faez al-Sarraj si è visto sfilare dalle forze armate che obbediscono al generale Khalifa Belqasim Haftar i terminal petroliferi della costa cirenaica. La conquista dei quali ha un valore simbolico, oltre che strategico: per quanto l’operazione non abbia sostanzialmente comportato vittime, l’attacco alle installazioni petrolifere è di fatto il primo vero atto di guerra fra la Cirenaica che si riconosce nel Parlamento di Tobruk e il governo di Sarraj. Formalmente Haftar – ex stella di prima grandezza del regime di Gheddafi, quindi esule negli Stati Uniti, poi di nuovo in Libia e oggi uomo forte di Tobruk che gode dell’appoggio dell’Egitto e di alcune monarchie del Golfo – assicura che i terminal petroliferi verranno restituiti alla National Oil Company, la compagnia di bandiera libica, in modo che possa riprendere l’export di greggio (l’unica vera e vitale risorsa economia della Libia) «senza alcun intervento sulle esportazioni o la conclusione di accordi commerciali da parte dell’esercito, che si occuperà solamente della protezione dei porti». A tutti gli effetti, un vero passaggio di proprietà: fino a due giorni fa i terminal erano controllati da una milizia che aveva stretto accordi con il governo di Tripoli. Ora è Haftar il nuovo Landlord di quella ghiotta fetta di profitti: attualmente la Libia si limita a una produzione di 200mila barili al giorno, ma a pieno regime il ricco sottosuolo libico può garantire almeno un milione e 600mila barili. Oro nero, nel vero senso della parola. Pochi chilometri più a ovest si consuma tuttora senza veri vincitori e vinti la battaglia per la riconquista di Sirte, città-chiave per frantumare l’espansione territoriale del Daesh. Ed è verosimilmente approfittando della concentrazione di milizie e reparti militari fedeli a Tripoli che Haftar ha potuto attuare il suo colpo di mano impadronendosi dei terminali petroliferi. Impossibilitato a contrastarlo sul piano militare e intenzionato a evitare una guerra civile vera e propria, ora Sarraj gli tende la mano: faccia pure il gendarme dei pozzi, dice, a condizione che agisca sotto l’ombrello del governo di unità nazionale. Ma anche questa, visti gli appetiti che un Paese profondamente diviso qual è la Libia del dopo-Gheddafi e gli impetuosi venti di secessione che la attraversano ha tutta l’aria di una mesta utopia. In questo quadro di incertezze, di violenza e di destabilizzazione, dove la forza delle baionette più che lo spirito di riconciliazione sembra guidare gli appetiti delle tante fazioni in lotta, sta per partire la missione italiana a Misurata. Oggi i ministri Gentiloni e Pinotti riferiranno in Parlamento lo spirito e le modalità di quella che si configura come una operazione di peacekeeping (edificazione di un ospedale a Misurata con il concorso operativo dello staff militare del Policlinico Militare del Celio e il supporto di 200 soldati del 186mo reggimento Folgore), ma in buona sostanza non è che un significativo raddoppio di quell’operazione (ma dovremmo forse chiamarla 'boots on the ground') in cui sono già ingaggiati i reparti delle forze speciali del Reggimento Col Moschin, da tempo schierati a sostegno delle forze libiche in lotta contro i jihadisti del Califfato. Con una complicazione che fino a ieri non c’era: oltre al Daesh che ancora resiste a Sirte, alle bande di scafisti che pullulano lungo la costa libica, a una regione – la Tripolitania – in cui il governo riconosciuto è confinato da marzo nella base navale di Abu Sittah (insediarsi a Tripoli è giudicato troppo pericoloso) si aggiunge oggi, definitivamente, la 'variabile Haftar'. Ovvero, una miccia già accesa che può far deflagrare la guerra civile. E davvero non sappiamo immaginare chi riuscirà a spegnerla in tempo.
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