venerdì 29 aprile 2016
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Forse la minaccia terroristica agli obiettivi citati al telefono – dall’ambasciata israeliana di Roma al Vaticano – non era imminente. Forse gli arrestati non sarebbero stati in grado di mettere davvero in atto i propri piani stragisti. Quello che tuttavia emerge dall’inchiesta condotta dalla Procura di Milano e dalle nostre Forze dell’ordine è un quadro inquietante del "contagio" che l’idea di Stato islamico riesce a diffondere e di come esso possa diventare veleno che distorce le prospettive esistenziali fino ad accecare completamente. Può una donna tenere come immagine salvaschermo i quattro bambini vestiti come piccoli guerriglieri? E un uomo avere come unico obiettivo quello di uccidere almeno un "infedele" prima di cadere anch’egli nel fiore degli anni su un anonimo fronte siriano? Ovviamente, ciò è accaduto. Di fronte alla minaccia oggettiva, bisogna quindi interrogarsi su un fenomeno complesso e, mai dimenticarlo, assolutamente minoritario all’interno della presenza straniera e islamica sul territorio europeo. Se si osservano i profili dei sei soggetti colpiti ieri in Italia da provvedimenti cautelari, è facile capire come si tratti di persone da tempo residenti nel nostro Paese, che parlano bene la nostra lingua e che, verosimilmente, non avevano problemi di integrazione in senso stretto. Probabilmente è stata proprio la loro collocazione in un tessuto sociale ancora vivo e capace di includere, senza creare enclave impermeabili – come Molenbeek a Bruxelles, che ha "generato" a decine combattenti per il Daesh e attentatori suicidi – a fare sì che l’abilità dei nostri investigatori riuscisse a intercettarli prima dell’irreparabile. Resta però la facilità con cui i messaggi via social media arrivano a coloro che sono più sensibili al fascino perverso del jihad. Il "poema bomba" che dal califfato nero di Raqqa è giunto nell’altrimenti placida Lecco incita senza giri di parole alla violenza in nome di Dio: «Ascolta lo Sceicco, colpisci! Dalle tue palme eruttano scintille, e sgozza, con il coltello è attesa la gloria, fai esplodere la tua cintura tra le folle dicendo "Allah Akbar"». Ed è questo l’altro elemento che non si può facilmente sottovalutare. Le conversioni (di alcuni italiani) e le conversazioni intercettate (di tutti gli indagati) sono intessute di riferimenti a una religione islamica che certamente è stravolta e schiacciata su obblighi esteriori (dal martirio come meta all’obbligo di sposare la vedova di un altro combattente per chi si trova in specifiche situazioni), ma che è comunque centrale nell’ispirazione sia di un piano generale di vita (la partenza dall’Europa per il Daesh) sia dei piani terroristici. Non sentono contraddizioni, gli aspiranti jihadisti, tra il richiamo al Dio che come suo primo attributo ha quello della misericordia e i propositi di morte da portare nel cuore di una città dove pacifici pellegrini cristiani celebrano il Giubileo della Misericordia. Quali esponenti dell’islam hanno incontrato, quali moschee hanno frequentato, se le frequentavano? Un interrogativo che riporta al centro la 'trasparenza' dei luoghi di culto islamici e la fondamentale collaborazione della comunità musulmana all’isolamento e alla pubblica condanna di coloro che scelgono percorsi di radicalismo incompatibili con gli stessi valori religiosi e con princìpi cardine e leggi dei Paesi in cui vivono.  Ma dall’efficace inchiesta resa pubblica ieri emerge anche quanto fuori bersaglio siano i timori e le polemiche che accompagnano l’arrivo e l’accoglienza dei migranti. Non erano profughi appena giunti con i barconi coloro che progettavano azioni armate; non erano miliziani travestiti da vittime dei miliziani stessi e perciò richiedenti asilo. Questo non significa che siano impossibili infiltrazioni o che si debba rinunciare a controlli e vigilanza. Come hanno mostrato le vicende belghe, il problema sono semmai certe 'seconde generazioni', giovani ormai cittadini europei sulla carta, ma per nulla nel cuore. Se si rinuncia o non si riesce a sviluppare efficaci politiche di accompagnamento, che offrano piene opportunità ma che chiedano anche un qualche impegno e partecipazione civile e rispetto per una legalità non formale e non a senso unico anti-immigrati, non si potrà evitare che, alla fine, per illusorio quieto vivere, nascano insediamenti chiusi in cui vigono regole diverse e incompatibili con quelle generali. Anche nel miglior modello di integrazione riuscita, qualche individuo sarà tentato da una distopia violenta. Ma in quel caso, in un ambiente che non tollera e non copre propositi jihadisti, sarà molto più facile individuarlo per tempo. Gli slogan non servono, servono fatti. La risposta vincente alla sfida dell’euroterrorismo jihadista passa per le capacità dei sistemi di intelligence e di sicurezza e almeno altrettanto per un’accoglienza e un’integrazione generose e vigili, secondo umanità e secondo giustizia.
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