venerdì 14 ottobre 2016
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Il primo testo sul suicidio che la cultura umana ha prodotto è un papiro egizio di 4.200 anni fa, noto come il 'Dialogo di un suicida con la propria anima'. È una disperazione invocante: «La morte è davanti a me oggi / come quando un malato risana / come l’uscir fuori da una detenzione». Quasi all’altro capo della storia, il 'Mito di Sisifo' di Albert Camus, inizia così: «Vi è un solo problema filosofico veramente serio, quello del suicidio.

Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia». I ministri olandesi della Salute e della Giustizia la fanno breve, e ieri l’hanno detto: da noi c’è già l’eutanasia, per i malati terminali, ma se un individuo sente di aver «completato la sua vita», a prescindere che sia malato o no, perché gli si dovrebbe rifiutare il favore di aiutarlo a uccidersi, e così farlo morire «con dignità»? Ma la semplicità strepitosa e banale della soluzione, e quelle stesse parole «ciclo vitale completato», ci mettono un brivido.

Sono il segno di un salto culturale che non ha più a che fare con la malattia, il dolore, la diagnosi infausta, non ha più a che fare neppure con l’eutanasia e i suoi problemi etici e giuridici: è la potenza della volontà di possedere la morte, di farsi mortali da sé anziché riconoscersi mortali, di scegliere l’ora della morte rifiutando che vi sia un’ora non segnata dall’uomo per uscire dalla vita. Prospettiva antropologica nuova che non ha più a che fare con la medicina, e a ben riflettere configura la fine non più come uscita dalla vita, ma come «ingresso nella morte», quasi volontaria distruzione d’esistenza. 

Com’è evidente, allora, che il suicidio ha a che fare con l’anima, col dialogo dell’anima, con le questioni ultime del senso della vita e dell’essere. Non dico soltanto dell’anima che fa persona ogni essere umano. Penso anche a ciò che ha significato, nella civiltà umana e nella storia del pensiero, il concetto di anima mundi, e quanta ricchezza di relazione, di intreccio, di cura, di sollecitudine, di fraternità infine e di comunanza di destino abbia suggerito e generato fra gli uomini. Oggi il fantasma della morte on demand lo falcia.

Oggi l’intuizione dell’anima mundi annega nell’individualismo solitario e disperato che esprime il massimo della liquidità sociale teorizzata. Diranno che la legge verrà ben preparata, e sarà acconcia, e avrà persino la premura di cercare una garanzia per far seria la morte e sottrarla all’impulso o alle pressioni: ci sarà «un esperto indipendente». Qualcuno, dunque, che potrà timbrare «ciclo vitale completato» su un’esistenza umana, e portare a morte l’infelice? Un profilo di dominio in cui solo il divieto ai familiari di somministrare proprio loro le medicine mortali guizza meno crudele. 

Diranno che l’infelice l’ha voluto, diranno che l’hanno aiutato, liberato dalla vita grama, dall’angoscia, dal senso di fallimento, di rovina, di stanchezza, di male; in una parola, dalla disperazione. Ma forse proprio dall’ultima parola si può risalire a capire che cosa coinvolge il pensiero suicida, il desiderio di farla finita, su quale terreno attecchisce, dove conduce. È proprio dalla parola disperazione che può distillarsi il senso di quella immensa grazia che è la speranza («una disperazione sormontata», la chiamava Bernanos) e la vitalità che la speranza inietta dentro la vita.

E il bisogno universale della speranza che 'rianima' ogni vita, perché in ogni vita sonnecchia una pulsione di morte. E la capacità di comunicarci speranza l’un l’altro, come fiore di vita nei nostri deserti. Ministri della Salute e della Giustizia olandesi, che ne sapete voi della speranza? O che ne sapete voi dell’anima, nei vostri prontuari farmaceutici, nelle vostre gazzette? Il pensiero suicida vi ha vinti? Siete voi, allora, i disperati.

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