sabato 1 novembre 2014
La svolta nel più popoloso Paese islamico. Dialogo e impegno: la "rivoluzione mentale" di Jokowi. Un governo con 8 donne, un ministro cattolico: il  nuovo governo promette di sostenere i poveri e tutelare le minoranze religiose. (Stefano Vecchia)
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Gestire l’immensità dell’arcipelago indonesiano, quasi 2 milioni di chilometri quadrati abitati da oltre 250 milioni di persone, sparsi in modo assai ineguale su oltre 17mila isole che includono ben tre fusi orari, è una sfida per ogni leader politico. Finora affrontata con un misto di pugno di ferro e concessioni populiste, con una decentralizzazione mai completata. La gestione di questa realtà in una prospettiva di sviluppo e di partecipazione è un’impresa accolta il 20 ottobre da Joko Widodo con l’accettazione della carica di settimo presidente della Repubblica d’Indonesia.  Una cerimonia solenne, quella all’interno del Palazzo del Parlamento a Jakarta per il 'presidente scelto da popolo', atteggiamento solenne e abito delle grandi occasioni per Widodo, che poche ore dopo, in una sera carica di aspettative, è tornato a essere Jokowi, come la 'sua' gente di Jakarta lo ha conosciuto per due anni. Salito sul palco davanti a decine di migliaia di cittadini in festa, ha partecipato al concerto rock organizzato in omaggio alla sua passione per l’heavy metal.  Jokowi ha vinto con il 53,15% delle preferenze (70.633.576 voti, contro il 46,85% e 62.262.844 voti del concorrente nel ballottaggio) elezioni combattute duramente in campagna elettorale, contestate duramente nei giorni successivi dal rivale sconfitto, l’ex generale Prabowo Subianto, già genero dell’ex presidente-dittatore Suharto.   Per molti indonesiani, la proposta di Prabowo – sostenuto dalla politica tradizionale, dalle forze armate, oltre che settori consistenti dall’islamismo politico – semplicemente era troppo simile a un passato che ha rappresentato grandi cose nell’esperienza post-coloniale, ma anche corruzione, persecuzione degli oppositori, democrazia guidata, sviluppo limitato e crescita del radicalismo islamico; il voto a Jokowi ha aperto la strada a una innovazione dovuta da lungo tempo ma finora senza guide. Il suo slogan è stato 'rivoluzione mentale', ovvero un cambio di atteggiamento che porti gli indonesiani a una maggiore autocoscienza, migliore educazione e propensione all’impegno, una diversa etica del lavoro da applicare a migliori opportunità. Per questo, e per la volontà liberalizzatrice, è stato favorito dagli imprenditori, dai poveri e dai giovani, il 50% dei 255 milioni di indonesiani. Popolarissimo, il 53enne neo-presidente, sposato con tre figli, è accusato da molti di immaturità politica e di un eccesso di idealismo, per i sostenitori è invece il simbolo di una politica diversa ma possibile. Musulmano, ha nominato 8 donne ministro su 34 posti, e per la prima volta a una donna è andato il delicato dicastero degli Esteri, mentre ai Trasporti è stato messo un cattolico. Le periodiche e spesso improvvisate visite alle aree più degradate della capitale, alle scuole, agli ospedali, lo stile e l’aspetto ne hanno fatto l’icona di una politica vicina alle necessità della gente piuttosto che agli interessi di pochi in un Paese dove il potere resta ancora in buona parte una questione elitaria o ereditaria.   Presidente espresso dalla minoranza politica ma votato dalla maggioranza della popolazione, Widodo ha radici umili e una biografia ben lontana da quella degli uomini in divisa o esponenti degli interessi economico-politici che l’hanno preceduto. Solo lavoro duro per se stesso e per la propria famiglia e impegno vero, prima come sindaco di Solo/Surakarta, ex capitale di Java centrale, e poi come governatore di Jakarta. Non vi è dubbio che su di lui, sulle prospettive che la sua presidenza proietta sul Paese in termini di sviluppo, convivenza e rispetto per i diritti di tutti, hanno puntato anche i cristiani e le altre minoranze religiose nel Paese all’88% musulmano. «Chiunque abbia a cuore i diritti umani e soprattutto la libertà religiosa dovrebbe sentirsi sollevato dall’elezione di Joko Widodo alla presidenza. Dopo una delle più combattute campagne elettorale nella storia indonesiana, e la più importante, l’Indonesia ha scelto come nuovo presidente un candidato che rappresenta il futuro, è impegnato a rafforzare la democrazia e ha una propensione nota verso la difesa del pluralismo religioso e la promozione dell’armonia», secondo le parole di Benedict Rogers, responsabile per l’Asia orientale di Christian Solidarity Worlwide.   Nato in una famiglia modesta nel villaggio di Boyolali a Java centrale, tre sorelle minori, avviato dodicenne al lavoro per potere proseguire gli studi medi e laureato alla Facoltà di Scienze forestali dell’Università Gadja Mada prima di entrare nel commercio del legname e di mobili, Joko Widodo ha avuto pochi sconti nella vita. Lo spostamento coatto con la famiglia d’origine per tre volte durante la sua infanzia doveva influenzare il suo impegno per l’edilizia popolare come primo cittadino di Solo.  Diventato sindaco della città nel 2005, il musulmano modernista Jokowi e il suo vice cristiano, F X Hadi Radatmyo, si impegnarono nei progetti di sviluppo per i settori meno abbienti della società. I risultati in termini di crescita economica, educazione, buongoverno e abitazioni gli guadagnarono non solo rispetto politico e fiducia dei cittadini, ma anche un posto nella classifica dei 50 maggiori leader mondiali della rivista Fortune. Gli aprirono infine le porte per vincere la carica di governatore della capitale nell’ottobre 2012. Ancora una volta, con un cristiano al suo fianco, Basuki Tjahaja Purnama. Una carica prestigiosa che Jokowi ha affrontato senza un cambio di stile, ma con impegno rinnovato, vicino alla popolazione più che alla politica alta che a sua volta non nasconde la scarsa simpatia per il suo stile troppo trasparente e la personalità troppo esuberante. Un strada in salita, in prospettiva, la sua dato che si trova a dovere convivere con un parlamento dominato dall’opposizione al suo Partito democratico indonesiano per la lotta. Una maggioranza ostile che contesterà legge dopo legge, decreto dopo decreto ogni suo mossa.   Non un ingenuo, Jokowi sa che la sua carta vincente resta l’appoggio della popolazione e che molto si giocherà sulla gestione del sistema di sovvenzioni a una serie di beni essenziali, tra cui prodotti petroliferi. Una situazione che ora porta un peso ingestibile sulle casse statali ma che non può semplicemente essere trasferito sulle famiglie, in molti casi al limite o al di sotto della povertà. Una sfida sarà anche continuare a garantire al 6% di popolazione protestante, al 3% cattolica e al 2% indù uguali diritti di cittadinanza e di pratica religiosa, minacciati da un radicalismo islamico incentivato fino dagli anni Novanta come strumento di controllo politico ma che rischia di diventare testa di ponte nel Paese di movimenti jihadisti. Per questo i cattolici hanno aperto una linea di credito verso il neo-presidente fino dalla campagna elettorale. «Jokowi è un leader che ha messo nella sua agenda diritti umani e libertà, la tutela delle minoranze, la lotta all’intolleranza religiosa», conferma Benny Susetyo, segretario della Commissione per il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale cattolica. Nella società indonesiana, nota ancora padre Susetyo, «è iniziato un processo di trasformazione in cui le nuove generazioni hanno un peso maggiore e che, mentre chiedono un rinnovamento delle classi dirigenti, sostengono la novità rappresentata da Joko Widodo».
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