mercoledì 23 marzo 2016
​​L'obiettivo è accrescere la domanda in Europa e la produttività in Italia. Le riflessioni di Antonio Fazio, ex governatore della Banca d'Italia.
Berlino e la grande inflazione
L'euro alla prova: economia da risollevare
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Veniamo a noi. Nel 1997 l’Italia entra nell’Europa dell’euro. Nel Trattato di Roma del 1957 l’obiettivo dell’Unione è lo sviluppo economico. Un principio solennemente espresso nel Trattato che deve presiedere alla politica economica è la sussidiarietà. Ogni Paese deve attuare la politica che ritiene adatta al suo sistema economico e alle sue istituzioni e coordinarsi con gli altri per tendere all’obiettivo comune della crescita. La Commissione Ue deve aiutare gli Stati che non riescono ad inserirsi favorevolmente nel processo di crescita. È cambiato qualcosa? Dov’è finito il principio di sussidiarietà? Si dice in quegli anni a livello politico: «L’Italia deve entrare in Europa». Ero governatore e obietto: «Ma noi siamo già in Europa, siamo stati fondatori! Ma siamo pronti a entrare nell’euro?». Nel 1996 a mia insaputa – il regime del cambio è responsabilità del governo – si decide di rientrare nel Sistema Monetario Europeo (Sme); ne eravamo usciti per l’incapacità di tenere il cambio, a causa della insufficiente competitività nei costi di produzione interni. Il rientro nello Sme prelude alla partecipazione alla moneta comune. Il Governatore ha l’alternativa di due linee di comportamento: può dire «non mi interessa, me ne vado» oppure «faccio ciò che mi si chiede, aiutando il mio Paese a realizzare gli obiettivi politici che si è dato».
 
Ritenevo che fosse opportuno quanto meno attendere per entrare nell’euro, ma la decisione politica era ormai orientata in modo esplicito. La politica monetaria aveva svolto i suoi compiti per stabilizzare il cambio: aveva ridotto a meno di 200 punti del forte spread tra titoli pubblici italiani e tedeschi (che aveva raggiunto i 900 punti). Aveva drasticamente frenato l’inflazione. Ma non aveva potuto certamente ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil al di sotto del 60% richiesto dai Trattati europei. Ritenevo pertanto che dovessimo prima fare delle politiche volte ad aumentare la produttività dell’industria e in generale a ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto. La notte del 24 marzo 1997 a Francoforte c’è una riunione drammatica: si discute di quali Paesi abbiano i requisiti per entrare nell’euro. Il Belgio e l’Italia non li hanno, sono fuori per l’eccesso di debito. La Grecia è fuori, ma ha comunque deciso di non entrare subito. L’Inghilterra decide di restare fuori indefinitamente, e così anche Danimarca e Svezia. Dico ai miei colleghi: «Cari amici governatori, io non posso accettare questo e vi avverto che se domani si scrive nel cosiddetto Rapporto di convergenza che l’Italia non partecipa, salta lo Sme e viene meno l’avvio dell’euro. Non è una minaccia, è analisi economica». Nel rapporto si finirà per scrivere che l’Italia è molto preoccupata del suo elevato debito. Era mezzanotte, non potevo consultare alcuno a Roma; scrivo sul momento un piano pluriennale di rientro del debito pubblico, impegnandomi a proporlo al governo per farlo diventare operativo. Con un linguaggio criptico, l’Italia alla fine viene ammessa.
 
Ricordo che purtroppo di quelle promesse la politica italiana, dopo averle assunte formalmente, non ne ha fatto nulla. Il rapporto fra debito e Pil ha continuato ad aumentare paurosamente, fino al 2015. Vengo chiamato in Parlamento, da una commissione della Camera. Mi si chiede del perché del mio atteggiamento sulla moneta comune. Riferisco: «Tutta la politica monetaria attuata negli anni Novanta era volta a ridurre inflazione e spread e a stabilizzare il cambio. Non ho fatto né consigliato alcun 'macello' di politica economica, ho condotto soltanto la politica monetaria adeguata e ho dato dei messaggi consoni a una aspettativa razionale di andamento delle variabili economiche, inclusa la possibilità di entrare nella moneta comune». Il banchiere centrale doveva in ogni caso condurre le politiche che ho descritto, indipendentemente dal partecipare o meno alla moneta comune. Spiego ancora: «Sentite, noi entriamo, ma il problema è come restare nell’euro. Quando si perde la manovra del cambio, si dovrebbe riacquistare una flessibilità del costo del lavoro e della finanza pubblica che ci permetta di rimanere competitivi». Avevamo l’esperienza dello Sme. Qualcuno diceva: stando nello Sme spingeremo le imprese ad aumentare la produttività e a contenere i salari. Ma ciò non era avvenuto: il sistema non aveva funzionato. Anche quando ero a capo del Servizio Studi, avevo sempre osservato che questo meccanismo non funziona.
 
Affermo in Parlamento: «Non avremo più i terremoti monetari, ma avremo una sorta di bradisismo. Sapete cos’è? È il terreno che si abbassa sotto il livello del mare gradualmente, come a Pozzuoli. Ogni anno perderemo qualcosa in termini di crescita rispetto agli altri Paesi». Guardiamo ora i dati della competitività italiana. Il Clup, il costo del lavoro per unità di prodotto, aumenta in Italia tra 2000 e 2003 del 9,9%; in Germania e Francia, i nostri maggiori partner e competitori, rispettivamente dell’1,7 e 1,5%. La produzione industriale in Italia tra il 2000 e il 2004 scende del 2,8%, in Germania sale del 3%, in Francia del 2%; nell’Europa dei 12 (Italia inclusa) cresce del 3%. Mentre la produzione europea sale, quella italiana scende. Mi piace molto fare da solo i conti sulle principali variabili macroeconomiche, con i dati ufficialmente disponibili. Ho calcolato, dal 2006 ad oggi, gli andamenti in Italia e in alcuni altri Paesi dei dati più rilevanti. Il Pil in questi 9 anni è calato in Italia del 5,5%, meno 0,6% all’anno; nel resto dell’Europa dell’euro, che comprende anche Slovacchia, Estonia, Spagna, Portogallo e Grecia, cresce dello 0,8% all’anno. Osservate il bradisismo: è uno sprofondamento dell’1,4% all’anno. Quello che muove l’economia sono gli investimenti produttivi: sono diminuiti in Italia tra 2006 e 2014 del 27%, nel resto d’Europa sono aumentati. Le esportazioni sono salite in Italia dal 2006 del 14,6%. Il problema è che le esportazioni crescono molto più rapidamente dell’economia e nel resto dell’Europa sono aumentate del 35%. E come va il Clup? In Italia sempre dal 2006 in media è aumentato del 2,4%, nel resto dell’Europa (inclusi Grecia e Portogallo) dell’1,5%, ma in Germania e Francia l’aumento è stato pressoché nullo. Si debbono fare allora le riforme, anche se non saranno quelle istituzionali a ridurre il costo del lavoro, punctum dolens dell’Italia per uscire da questo stallo. Avremmo, per esempio, da imparare dalla Germania circa la partecipazione dei sindacati nell’indirizzo e gestione delle imprese. Adam Smith, ritenuto il fondatore della moderna economia politica, diceva che i sistemi economici si reggono sulla concorrenza e sul mercato, ma anche sulla sympathy, l’amicizia civile che è unità d’intenti all’interno della nazione. Non si può vivere di sola concorrenza e tanto meno di lotta di classe.
 
La conclusione. Vediamo l’economia mondiale. Il Pil degli Stati Uniti è di circa 18mila miliardi di dollari l’anno. Il Pil della Cina è circa la metà (da tener presente però che negli Usa vivono 300 milioni di persone, nella Cina un miliardo e 300 milioni, quindi il reddito pro capite è un ottavo). Il Giappone ha un Pil di circa 5mila miliardi. La Germania di oltre 3mila miliardi di dollari; la Francia 2,3 circa, l’Italia 1,7. L’area dell’euro: circa 11mila miliardi, un po’ sopra la Cina, notevolmente inferiore agli Stati Uniti che hanno più del 20% del Pil mondiale (l’area dell’euro ha circa un ottavo). La bilancia dei pagamenti, differenza tra quello che si esporta e quello che si importa, negli Stati Uniti è deficitaria per 456 miliardi di dollari. Come fanno? Creano dollari, principale moneta internazionale, per coprire il disavanzo. La Cina ha quasi 300 miliardi di dollari l’anno di surplus della bilancia dei pagamenti. Pagano pochissimo il lavoro, il costo del lavoro è forse un decimo di quello europeo e degli Stati Uniti. Ma il fatto più straordinario è che la Germania, proprio per l’aumento di competitività iniziato dal 2000, ha un surplus vicino a quello della Cina. La Germania è un terzo della Cina, e ha un surplus dovuto al fatto di avere un’industria particolarmente efficiente. Ma gode, grazie all’euro, di un cambio favorevole in quanto altri Paesi, tra i quali Italia, Spagna, Grecia, anche la Francia, di fatto ne abbassano il valore. Un Paese che ha un surplus della bilancia dei pagamenti dovrebbe reinvestirlo in spesa reale o prestarlo ad altri Paesi che hanno un deficit, altrimenti crea deflazione nel sistema di cui è parte. I l piano che aveva ideato Juncker, di investimenti per 315 miliardi, era la soluzione giusta. L’area dell’euro ha un surplus, nei confronti del mondo esterno, del 3% del suo Pil. Cosa fa? Ha disoccupazione, ha deflazione, può e deve spingere invece gli investimenti. L’ex ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, che è stato tanto criticato, aveva capito le cose meglio degli altri. In sostanza l’argomento è: se invece di puntare tutto sul Quantitative easing (anche se Mario Draghi si sta muovendo nella giusta direzione, al massimo di quanto gli concede lo Statuto) comprando titoli pubblici – quindi coprendo una spesa già effettuata da altri –, 300 miliardi fossero impegnati ogni anno in progetti di investimento scelti dalla Banca Europea degli Investimenti e i relativi titoli acquistati dalle banche centrali nazionali, avremmo un immediato, notevole sollievo della situazione economica. La politica monetaria molto espansiva aiuta l’economia, in particolare in questo momento attraverso il cambio, che dopo i livelli che aveva raggiunto – proibitivi per le economie più deboli – è ora tornato su livelli più naturali. Comunque se il cambio è in linea con le economie più deboli, è estremamente favorevole per quelle più forti. Keynes ci ha insegnato: in un’economia dove c’è disoccupazione, il risparmio lo formano gli investimenti. Effettuando gli investimenti aumenta il reddito e si forma il nuovo necessario risparmio.
 
Non bisogna ragionare, come talora si fa in Europa, come se i soldi fossero già in cassa, questo è un ragionare da contabili, non tenendo conto delle più elementari nozioni di macroeconomia. L’area dell’euro soffre di problemi gravi di disoccupazione. La domanda globale è insufficiente. I riflessi sociali sono evidenti, seguiranno purtroppo riflessi anche politici. Il surplus di bilancia dei pagamenti di alcuni Paesi dovrebbe essere impiegato in investimenti reali, non finanziari, in patria o in altri Paesi dell’area. Una politica del genere aiuterebbe anche l’economia mondiale. Un’ultima considerazione. Nel 2007 il rapporto tra debito pubblico e Pil era nel nostro Paese pari a 103, è arrivato a ben oltre il 130 a seguito delle politiche di aumento dell’imposizione fiscale suggerite dalla Commissione. O è sbagliata la diagnosi o è sbagliata la medicina. Ma se è sbagliata la diagnosi, la cura è sicuramente controproducente. Se in una economia già in difficoltà si accresce il livello di imposizione fiscale l’attività economica viene ulteriormente frenata, con effetti negativi su occupazione e società. L’unico modo di ridurre il rapporto tra debito e Pil è stimolare la crescita. Se la politica praticata e che viene consigliata per l’Italia non ha questo risultato, non si esce dal circolo vizioso. Il discorso è aperto.
(2 - fine. La precedente puntata è stata pubblicata il 22 marzo)
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