domenica 15 giugno 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
​I personaggi biblici non sono maschere di una pièce teatrale. Non interpretano un ruolo o un carattere (buono-cattivo, traditore-tradito, ecc.). Sono esseri umani, con i colori e i tratti dell’umano tutto intero. Alcuni di questi personaggi hanno ricevuto una chiamata particolare in vista di un compito e di una salvezza collettiva, ma non hanno mai smesso di essere uomini e donne interi. Così bontà, purezza, imbrogli, furti, benedizioni, abbracci, fraternità, fratricidi, si intersecano e danno vita a una storia vera di salvezza per tutti. I protagonisti della Genesi ci sono vicini e ci parlano perché si mostrano nella nudità delle loro emozioni e ambivalenze, senza paura di inoltrarsi anche nelle meschinità e contraddizioni della condizione umana. E così disegnano una salvezza possibile per tutti, e una grande cura per ogni ideologia, comprese le molte ideologie della fraternità.Giuseppe, il protagonista dell’ultimo (grandioso) ciclo della Genesi, non è ricordato come il quarto patriarca («Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», si dirà sempre). Giuseppe è figlio di Giacobbe e Rachele, ma, soprattutto, Giuseppe è fratello, e la sua storia è un grande insegnamento sulla grammatica della fraternità biblica (e nostra).
Giacobbe-Israele aveva avuto Giuseppe da Rachele, la donna di cui si era innamorato presso il pozzo. Suo padre aveva per Giuseppe un amore speciale, un’esplicita e nota predilezione. Il testo non ha paura di dircelo: «Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli» (37,3). Per questo «gli aveva fatto una lunga tunica» (37,3). Questa tunica (ketônet passîm) era speciale e diversa da quelle degli altri fratelli. Era lunga, con le maniche che coprivano il palmo della mano, forse variopinta e ricamata – per Thomas Mann quella tunica era stata la veste di Rachele, che suo padre Laban le aveva donato per le nozze, che aveva comprata da mercanti e che era appartenuta anticamente ad una figlia di re. Certamente una veste di lusso, e quindi non adatta per chi deve lavorare. Un messaggio di predilezione e di status all’interno del clan che arrivò forte e chiaro agli altri fratelli: «I suoi fratelli videro che il loro padre amava lui più di loro: così lo odiarono» (37,4). In questa complessa situazione famigliare – figli di mogli diversamente amate da Giacobbe, figli di schiave, un prediletto – si aggiunge un altro elemento a complicare ulteriormente il racconto. Giuseppe è un sognatore, ma soprattutto è un narratore pubblico dei suoi sogni. Giuseppe, diversamente da suo padre, non sogna né il paradiso né ode le parole di JHWH (in tutto il ciclo di Giuseppe, Dio resta molto sullo sfondo, la scena è tutta per i rapporti inter-umani). È lui il protagonista dei suoi sogni: «Ascoltate questo sogno che ho fatto: Ecco, noi stavamo legando dei covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si alzò e stette dritto, ed ecco che i vostri covoni stettero attorno e si prostrarono al mio covone» (37,7). Così i fratelli «lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole» (37,8). Fece poi un altro sogno: «Il sole, la luna e undici stelle si prostravano a me» (37,9). Dopo il secondo sogno, Giacobbe (che si riconobbe nel «sole» del sogno) lo rimproverò (37,10), e i suoi fratelli («le undici stelle») «furono invidiosi di lui» (37,11). Giuseppe, il figlio con la veste regale, già non amato dai fratelli perché prediletto dal padre, imprudentemente, ingenuamente, con l’irruenza e la bella immaturità della giovinezza, ma anche per il suo temperamento-compito (i sogni sono parte della vocazione di Giuseppe), racconta quei sogni che finiscono per trasformare il sentimento dell’invidia-gelosia dei fratelli in un vero e proprio odio e poi in un piano d’azione per eliminarlo. Quando, infatti, Giuseppe raggiunge i fratelli che stanno pascolando dalle parti di Sikèm, perché inviato (imprudentemente) dal padre a vedere se stavano bene (shalom), appena lo scorgono da lontano esclamano: «Ecco, arriva il sognatore [il padrone dei sogni]» (37,19). E così deliberano di ucciderlo: («Adesso, su, uccidiamolo» (37,20)). Poi, in seguito all’intervento di Ruben, il primogenito, cambiano idea e decidono di gettarlo in una cisterna nel deserto («Non spargete sangue, gettatelo in quel pozzo» (37,22)). Infine, su suggerimento di Giuda, lo vendono ad una carovana di mercanti di passaggio («Vendiamolo agli Ismaeliti» (37,27)).
Questa tragica fine di Giuseppe – che poi scopriremo essere anche salvifica, ma noi ora non lo sappiamo, e non dobbiamo saperlo – dipende da un elemento decisivo: i fratelli credono ai sogni di Giuseppe. Sono loro gli interpreti, e leggono il contenuto di quei sogni come una vera rivelazione o profezia. È la forza di verità dei suoi sogni e della sua parola che condannano Giuseppe. Se i fratelli non avessero visto in Giuseppe le potenzialità per diventare il «primo covone» della famiglia, lo avrebbero soltanto deriso come un ragazzo vanitoso. Invece riconoscono che la predilezione del padre può essere al servizio di un piano divino e di un talento naturale che innalzano Giuseppe rispetto a loro.
Con Giuseppe, allora, fa la sua comparsa un nuovo tipo di conflitto intra-famigliare. Fino ad ora, i conflitti nella casa di Abramo erano stati dualistici: Caino/Abele, Sarai/Agar, Giacobbe/Esaù, Lia/Rachele. Ora il conflitto è tra un fratello e gli altri fratelli. Ci troviamo di fronte a una discriminazione comunitaria, a un’invidia-gelosia collettiva, che si traduce in una violenta persecuzione e quindi in una espulsione, che sfiorerà molto da vicino il fratricidio.L’invidia collettiva verso un singolo è una grave e diffusa malattia sociale, organizzativa e comunitaria. La incontriamo tutte le volte che in un gruppo si crea una certa perversa solidarietà attraverso il processo di invidia-gelosia per una persona, che diventa ostracismo e persecuzione di quella persona da parte di tutti gli altri. E accade (quasi) sempre che i persecutori per giustificarsi trovino delle ragioni di colpevolezza del perseguitato, mascherando a loro stessi e agli altri la sola vera ragione: la gelosia-invidia (anche nel testo biblico troviamo qualche passaggio dove il narratore, sulla base di antiche tradizioni, lascia aperta la possibilità di una parziale co-responsabilità di Giuseppe (37,2;10)).
Non è poi raro che la prima ragione della persecuzione nasca dai “sogni” del perseguitato. Un membro di un gruppo, che si stava già distinguendo per qualche ragione, comunica – ai colleghi, ai membri della comunità… – un progetto di vita, un piano di riforma, una visione più grande. Gli ascoltatori interpretano il “sogno”, e conoscendo le qualità del sognatore, credono che quei progetti più grandi dei loro potranno avverarsi realmente. Scatta l’invidia-gelosia (sono sorelle gemelle), e non di rado il piano per eliminare il “padrone dei sogni”. Questo particolare tipo di invidia – l’invidia per i sogni degli altri –, particolarmente subdola e dannosa, si attiva per la presenza di un talento in un membro dello stesso gruppo (tutte le invidie si sviluppano tra pari), che è la sua capacità di sognare cose grandi e di poterle realizzarle. Questa invidia-gelosia verso l’altro nasce dalla mancanza in noi di sogni altrettanto grandi e belli. In simili processi relazionali, la presenza del privilegio (la veste e i sogni) è reale, non è inventata dagli invidiosi, è solo interpretata come minaccia invece di essere vista come un bene comune. Per questa ragione, questa invidia (soprattutto quando si sviluppa dentro le nostre comunità primarie) si cura soltanto riconciliandosi col talento dell’altro, fino a sentirlo come nostro, di tutti – è emblematico che prima di gettare Giuseppe nella cisterna i fratelli «lo spogliarono della sua tunica» (37,23).
In simili dinamiche comunitarie, la grande tentazione del sognatore è rinunciare a sognare, e smettere di raccontare i sogni agli amici. Ma se non raccontiamo più a nessuno i nostri sogni più belli e vocazionali, arriva presto il giorno in cui non riusciamo più a sognare: chiudiamo gli occhi per vedere di più, e non accade nulla. Finché abbiamo qualcuno a cui raccontare i nostri sogni, abbiamo ancora degli amici (l’amicizia è anche il “luogo” dove possiamo raccontarci, reciprocamente, i sogni più grandi). Giuseppe raccontava i suoi sogni ai fratelli perché li considerava amici; era giovane e si fidava di loro (quale fratello più piccolo non si fida dei fratelli più grandi?). Tradire o pervertire un sogno narrato da un amico-fratello è il primo delitto dell’amicizia e della fraternità (che così resta solo una faccenda di sangue). Quando l’invidia degli altri ci strappa la tunica variopinta e fa morire dentro i nostri sogni, le comunità iniziano un inesorabile declino morale e spirituale. E il sognatore si spegne, si intristisce, si perde.Giuseppe non smise di raccontare i suoi sogni, e quei sogni-raccontati salvarono anche i suoi fratelli.l.bruni@lumsa.it
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI