sabato 18 ottobre 2014
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Poter morire con dignità: per questo una giovane americana con un cancro incurabile al cervello – le hanno diagnosticato sei mesi di vita – ha deciso di suicidarsi, prima che le sue condizioni si aggravino troppo. La vicenda è ormai nota: lei si chiama Brittany, ha 29 anni, e per porre fine alla sua vita si è trasferita insieme alla sua famiglia in Oregon, dove il suicidio assistito è legale. Una decisione che ha voluto rendere pubblica, e con cui sta portando avanti una campagna perché la «morte con dignità» sia accessibile in tutti gli Stati americani. Brittany ha già deciso la data: il 1° novembre, dopo il compleanno di suo marito. Questa storia continua a fare il giro del mondo, commuovendo tutti, e d’altra parte, come potrebbe essere altrimenti? Ma non ci si può fermare alla commozione, ed è proprio il rispetto per le persone sconvolte da una tragedia come questa che ci chiede di dire qualcosa di più. Innanzitutto, che le campagne per il «diritto a morire» tendono a usare il meno possibile parole con connotazioni negative come 'eutanasia' – cancellata anche dall’ultimo codice deontologico dei medici italiani – o 'suicidio', sottolineando invece l’aspetto positivo del «diritto a morire», e cioè la 'dignità' che verrebbe dalla possibilità di scegliere quando e come morire con un timbro statale di approvazione. Ma rispetto al 'quando', quel conto alla rovescia di chi sa quando andarsene perché l’ha deciso lui stesso, siamo certi che allontani l’angoscia e riduca la paura? Come vivrebbe ciascuno di noi, conoscendo il giorno e l’ora della propria morte? Riguardo invece al 'come', dobbiamo prendere atto che il dolore, ora, nella stragrande maggioranza dei casi, si può superare: sappiamo che, fortunatamente, le terapie disponibili riescono sempre più a controllare quei dolori insostenibili che altrimenti accompagnerebbero la fase terminale di tanti malati, e che molto spesso il problema è l’accesso a tali terapie. La questione che si pone è quella di voler mantenere le capacità cognitive e di movimento, cioè l’autonomia personale. La 'dignità' consisterebbe quindi in una condizione ben specifica, quella di non dipendenza dagli altri, compresi i nostri cari: si va a morire con dignità se possiamo farlo essendo ancora capaci di muoverci, mangiare, lavarci, senza particolari aiuti da parte di nessuno. Ma è vero che è l’autosufficienza a darci dignità?  Se così fosse, allora chiunque non in grado di badare a se stesso – anziano, disabile, bambino – non condurrebbe, di fatto, una vita dignitosa. E al contrario, ogni persona in buona salute non avrebbe bisogno di altro.  Ma l’esperienza ci mostra che non è così. Un bambino, per esempio, non ha paura di dipendere dalla propria madre. La dignità infatti è qualcosa che viene dalla relazione con gli altri, dal fatto che ognuno di noi riconosca o meno che l’altro ha valore, e da come, di conseguenza, tratta l’altro. La dignità agli altri la diamo noi. E d’altra parte possiamo essere perfettamente autosufficienti e sentirci comunque umiliati nella nostra dignità quando siamo 'trattati male', cioè quando chi si rivolge a noi lo fa, facendoci capire che per lui non abbiamo valore, non valiamo niente.  Dico questo anche per esperienza recente. Insieme alla mia famiglia ho assistito mio padre, morto alla fine di agosto. Aveva 91 anni ed era invalido; dopo una polmonite ha perso progressivamente la capacità di muoversi, di parlare, di vedere, e in un mese è morto. Soprattutto in questo ultimo periodo è dipeso completamente da tutti per tutto, e non sappiamo fino a quando sia stato cosciente. Ma posso dire che la sua è stata una morte pienamente dignitosa, perché tutti noi che gli eravamo accanto, familiari, dottori e infermieri, lo abbiamo sempre trattato con rispetto, attenzione e affetto profondi, fin nei più piccoli gesti di cura quotidiana – dalla pulizia personale al modo in cui veniva girato nel letto, da come lo imboccavamo e lo massaggiavamo, a come ci rivolgevamo a lui, parlandogli fino alla fine. Trattato come ognuno di noi avrebbe voluto essere trattato. Con dignità, appunto. Perché la sua vita valeva, ed ha avuto valore fino alla fine.
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