martedì 31 maggio 2016
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È comprensibile che l’opinione pubblica possa sentirsi minacciata, che si senta spalle al muro, vittima di eventi unici ed eccezionali. Soprattutto se mass media e politici suonano rozzamente la grancassa populista dell’«invasione», della «minaccia islamica» e delle nuove «orde di barbari» che si abbattono sui troppo civili e fragili confini "Impero Europeo", speculando sulle paure dell’altro per qualche copia (che magari non arriva) e qualche voto (che forse non dura) in più. A maggior ragione perché, quando si ragiona di tematiche come queste, la "percezione" vince facilmente sui dati reali. Proprio per questo bisogna reagire guardando ai fatti, cercando di inquadrarli in un’ottica più solida e in un’analisi più lucida del semplice allarme quotidiano.Oggi ciò vale soprattutto per le migrazioni, con migliaia di vite drammaticamente in gioco ogni giorno. Non si tratta di un fenomeno che colpisce solo l’Europa, bensì di un fattore sistemico e strutturale globale – non legato solo a questi decenni – di spostamento dalle zone più svantaggiate a quelle privilegiate e dalle regioni in conflitto verso i Paesi vicini non in guerra. Vi sono, quindi, milioni di migranti dall’America centro-meridionale verso gli Stati Uniti, dall’Asia sud-orientale verso l’Australia; dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa. Ma milioni di rifugiati in fuga dalle guerre stanno anche in Pakistan, Iran, Giordania, Libano. In quest’ultimo Paese rappresentano quasi il 50% della popolazione. Come se in Italia avessimo 30 milioni di profughi. Invece facciamo i conti con i 170 mila arrivati nel 2014, i 140 mila del 2015 e un 2016 relativamente "tranquillo" fino al mese di maggio.È questa l’«invasione»? Il problema si ingigantisce per via della cattiva gestione europea e della mancanza di solidarietà: per paura delle proprie opinioni pubbliche, vi è una corsa di quasi tutti i governi dell’Unione Europea ad attuare risposte meramente reattive e di breve respiro che gestiscono in problema in chiave contingente e locale. Con il risultato di non fermare i flussi, ma semplicemente di spostarli in continuazione, con un gioco a rimpiattino, sperando che i migranti seguano altre rotte. Se poi si guarda ai Paesi di provenienza di chi è arrivato in questi mesi in Europa, si vede la preponderanza di iracheni, siriani, afghani. Ossia di persone che sfuggono agli orrori di guerre civili e del fanatismo jihadista. È evidente come per prosciugare quei flussi sia fondamentale passare da risposte puramente reattive a politiche di medio-lungo periodo di stabilizzazione: per prima cosa, fare di più e fare meglio per sconfiggere il Daesh e fermare il conflitto siriano. E insieme far finire l’infinito sacco dell’Africa di corrotti e corruttori travestiti da mercanti. In questi anni, invece, abbiamo fatto poco e male, per i soliti meschini calcoli di realpolitik nazionale e perché alleati di Stati e governi che hanno ambiguamente giocato o con l’estremismo islamista, con la vita dei propri "sudditi", con le nostre paure e attese.Ma il flusso di barconi carichi di disperati e le centinaia di donne, uomini e bambini tristemente morti annegati nel nostro Mediterraneo in queste settimane dimostrano altre cose ancora. Innanzitutto, la necessità – per noi italiani davvero prioritaria – di favorire il processo di stabilizzazione della Libia, il miglior strumento per gestire meglio il fenomeno migratorio e condizione imprescindibile per pensare di creare campi profughi sotto il controllo delle Nazioni Unite lungo la sponda sud. Poi, guardando al rapido aumento delle partenze dalle coste egiziane, registrato nelle ultime settimane, si capisce l’uso strumentale delle migrazioni fatto dai regimi della costa sud. Dopo la crisi nei rapporti Italia-Egitto per il caso Regeni, sembra che il Cairo ci mandi dei segnali, riducendo i controlli sulle partenze e ricordandoci l’importanza della loro "amichevole" collaborazione. Il rischio è che con la chiusura della rotta balcanica e la riapertura di quella egiziana, aumentino esponenzialmente i flussi nel Canale di Sicilia. A maggior ragione, allora, è necessario ripensare le risposte europee, con politiche che non puntino solo a "fermare" i migranti, sperando che se ne vadano nel Paese più vicino (e lì restino), rilanciando iniziative comuni di stabilizzazione e di miglioramento degli scenari geopolitici e geoeconomici in Medio Oriente e in Africana. Impresa inavvicinabile a tutti coloro che sfornano rozze invettive e politiche arcigne e sempre zoppe.
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