martedì 6 gennaio 2015
Impossibile per il paese riprendersi e sostenere il debito. ​Ora servono politiche monetarie e fiscali espansive.
Tempesta greca sulle Borse europee
Atene, l'incerto cammino verso le elezioni
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Il problema della Grecia non è Alexis Tsipras, capo di una sinistra radicale ed euroscettica, ma l’insolvibilità del debito greco nelle presenti condizioni. Il problema dei capi dell’Unione Europea (i meno perdonabili di tutti), dei mercati (i più cinici) e della stessa opinione pubblica (distratta e indifferente) è, invece, che si svegliano solo quando c’è qualche casus belli e sembrano non guardare le cifre. Basterebbe prendere l’astronomico rapporto debito/Pil, il pur sussidiato costo del debito, l’inflazione sotto zero e il piccolo avanzo primario per rendersi conto (come già detto e ridetto su queste colonne) che solo con una crescita superiore al 3% (invisibile all’orizzonte) il debito greco può non esplodere. E questo è noto da tempo. Il problema della Grecia, però, è anche in quei commentatori internazionali (pure italiani) che si precipitano a parlare di 'successo' della cura lacrime e sangue imposta ad Atene ai primi timidi segni di 'rimbalzo' per un Paese che è precipitato di 25 piani (25 punti percentuali), perdendo un quarto del Pil in una recessione che è finita (controllare per credere) nel Guinness dei primati 2015 come la peggiore nel mondo dal dopoguerra a oggi. Eppure, nonostante le nubi di tempesta, ci vuole un tasso di ottusità veramente elevato da parte della Ue per non essere in grado di sfruttare le attuali condizioni favorevoli del mercato dell’energia e dei mercati finanziari pieni di liquidità, ma i Paesi membri – che di ottusità e incapacità di fare gioco di squadra ne hanno dimostrata già molta – potrebbero purtroppo riuscire anche in questa difficile impresa. Con il crollo dei prezzi del petrolio e dei tassi determinati in emissione sui titoli pubblici (negativi gli ultimi sui Bot, un privilegio che sembrava limitato alle emissioni tedesche fino a poco tempo fa) solo la prosecuzione della paralisi, degli irrigidimenti, dei tic 'austeriani' e rigoristi per cui 'non è bene star bene perché si rischia di allentare la disciplina', della mancanza di fiducia e di capacità di sfruttare le possibili sinergie a livello europeo può impedirci di cogliere le opportunità all’orizzonte. Incredibile l’argomento che lega rigore a disciplina. È come dire che non bisogna dare da mangiare al malnutrito (ovvero al Paese 'non virtuoso', e parliamo di un Paese che ha ormai un surplus di bilancio pubblico) perché altrimenti verranno meno i suoi incentivi a cercare cibo. A questo punto per ridurre progressivamente il rapporto debito/Pil da noi del 2% all’anno, con un saldo primario largamente in attivo e un debito poco sopra il 130% del Pil, basterebbe una somma di tasso di crescita del Pil più inflazione pari al costo medio del debito pubblico. Quest’ultimo, se perdurasse l’attuale bonaccia sui mercati finanziari e l’ombrello della Banche centrale europea rafforzato dalla decisione di acquisto dei titoli pubblici (il cosiddetto quantitative easing), potrebbe scendere verso i due punti percentuali anche in Italia. Impresa dunque non temeraria se la Bce riuscisse ad avvicinare il suo tasso d’inflazione obiettivo al 2% e se il governo e l’Europa riuscissero a porre le condizioni per una ragionevole benché minima ripresa. Anche la Grecia, con il quantitative easing e un’inflazione vicina all’obiettivo Bce, potrebbe rientrare in carreggiata pur con tassi di crescita moderati.   Il fine è la lotta alla disoccupazione e non il rigore come valore in sé. I forzati del rigore capiranno forse adesso che non è la cura dimagrante della spesa che assicura il contenimento del debito e condizioni di prosperità, ma la combinazione di politiche monetarie espansive, monetizzazione del debito e politiche fiscali espansive, ovvero la via coraggiosa intrapresa subito dopo la crisi dagli Stati Uniti che non si sono preoccupati di rapporti deficit/Pil iniziali sopra il 10%, ma che adesso con una crescita nominale (crescita Pil reale più inflazione) che arriva a 5 punti percentuali (dove l’inflazione è solo all’1,5%), hanno posto le condizioni per una drastica riduzione del rapporto debito/Pil e deficit/Pil, quest’ultimo già rientrato sotto il 3%. Era così difficile da capire? Non tanto se già sulle colonne di questo giornale abbiamo iniziato a parlare di «dividendo monetario della globalizzazione» da un paio d’anni a questa parte. Sottolineando come la combinazione di quantitative easing, politica fiscale europea espansiva e piano "padre" di ristrutturazione del debito per tutti i Paesi (non solo la Grecia) potrebbe portare vantaggi a tutti i membri dell’Unione e far iniziare una nuova era. Un’ipotesi sulla quale hanno concordato i 350 economisti che, in Italia e in Europa, hanno firmato il manifesto-appello 'per una nuova Bretton Woods'. Ma, mentre i banchieri centrali americani (Ben Bernanke prima e Janet Yellen poi) hanno capito tutto subito, i Paesi europei sono divisi dai loro presunti interessi particolari mentre si trovano in realtà sulla stessa barca. E il Roosevelt europeo del 2000 (che si fa davvero fatica a scorgere in Jean-Claude Juncker) ancora non si intravede all’orizzonte.
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