martedì 14 giugno 2016
C’è una novità sgradevole agli Europei di calcio: gli hooligans militarizzati, che si muovono come plotoni. (Ferdinando Camon) ​​​
Euro2016, tensione a Marsiglia: Russia e Inghilterra a rischio esclusione
 Disarmiamo il tifo (e tutto il calcio)
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C’è una novità sgradevole agli Europei di calcio: gli hooligans militarizzati, che si muovono come plotoni.  Sono russi? I russi, principali devastatori di Marsiglia, se ne vantano, e parlando degli hooligans inglesi dicono: «Sono flaccidi e decaduti, si vestono come donne, polo firmate e scarpette leggere. Noi siamo i duri, perché lavoriamo nell’esercito e nella polizia». Qui c’è una prima rivelazione: una violenza che viene dalla pratica militare e si trapianta nel tifo. Conoscevamo già questa relazione, tra tifo e forze armate. Ce l’aveva insegnata Arkan, ai tempi della guerra nell’ex Jugoslavia: volendo costituirsi un esercito personale, Arkan arruolava i tifosi organizzati della sua squadra. Li considerava 'pronti per uccidere'. Erano intruppati sotto comandi dittatoriali. Gli hooligans russi dicono, parlando degli hooligans inglesi: «Sono violenti perché sono ubriachi, ma si muovono in completa anarchia, senza disciplina; i nostri manovrano come in battaglia, seguendo gli ordini, sia in attacco che in ritirata». Cosa significa? Che ci sono hooligans che spaccano cose e teste per raptus, un raptus ricorrente ma pur sempre un impulso, e hooligans che spaccano tutto per disciplina, metodo, istruzione. Chi fa il male? Tutt’e due. Vanno in trasferta per vedere un confronto fra due nazionali? No, per vedere lo scontro fra due nazioni. Il calcio è diventato una forma di lotta onnicomprensiva. Non si tratta di battere la squadra avversaria, ma di danneggiare la nazione nemica: e questo spiega lo sventolio, tra hooligans di diverse nazionalità, di bandiere neonaziste. A battaglia finita, gli hooligans di uno schieramento dicono degli altri: 'Sono animali', cioè sottoumani. È il mito nicciano del Superuomo che torna sempre fuori. L’odio per l’avversario comincia fin da quando si cantano gli inni: i tifosi di una squadra fischiano l’inno dell’altra squadra. Non comprendono che così non insultano una squadra, ma un popolo e la sua storia. O forse lo comprendono, e lo vogliono. Gli inni, tranne pochi, sono feroci. Alcuni intellettuali francesi proponevano, anni fa, di sostituire la Marsigliese, perché è sanguinaria: che senso ha «riempire i propri solchi col sangue impuro del nemico», se vai a giocare a calcio? L’inno tedesco è imperialista, oggi lo sentiamo così, «la Germania sopra tutto e sopra tutti». Quando fu inventato, la Germania non c’era ancora, c’erano tanti Laender, e ricordare che bisognava fare soprattutto la Germania aveva un altro senso. Ma una squadra di calcio, e sia pure la nazionale, non è la nazione. Ne fan parte anche atleti che vengono da altre nazioni. Uno dei più forti giocatori della Germania è Boateng, e siccome ha origini ghanesi, pochi giorni fa il segretario di un partito tedesco ebbe l’infelice idea di dichiarare che tutti i tedeschi lo vogliono come giocatore, ma nessuno lo vuole come vicino di casa. Uno così non dovrebbe fare politica. «E poi - ha aggiunto -, è stato in pellegrinaggio alla Mecca», e con ciò (non so se se ne rendesse conto) proponeva il ritorno del vecchio principio cuius regio eius religio, ognuno deve accettare la religione del luogo in cui si trova. E infine: «Non canta l’inno tedesco».. Qui c’è un grosso problema. Ogni tanto qualcuno propone che gli studenti salutino l’alzabandiera e cantino l’inno prima delle lezioni, e a me non pare un’idea sciocca: dà il senso dell’importanza delle ore che stai per trascorrere, e ti dice da dove viene quel che stai per imparare. Altri propongono di abolire l’inno prima di una partita: personalmente, sono d’accordo. La patria non è impegnata in una gara di calcio col suo onore e la sua storia. Levare drammaticità ed epicità alle partite di calcio servirebbe a levare violenza. Dovremmo capirlo anche noi italiani. «Gli italiani perdono una guerra come una partita di calcio, e una partita di calcio come una guerra», diceva Churchill. Non era un complimento. 
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