giovedì 14 luglio 2016
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C'è un aspetto troppo assente dai dibattiti di questi giorni su banche e tentativi di soluzione della crisi. È la governance delle banche e del sistema finanziario, che è evidentemente obsoleta se la rapportiamo con i cambiamenti rapidissimi e profondi di questi ultimi tre decenni. Tra il Seicento e la seconda metà del Novecento la logica del rapporto tra finanza e politica era rimasto sostanzialmente immutato: le banche e le finanze erano considerate attività troppo strategiche e delicate per lasciarle nelle mani del libero gioco della domanda e offerta di denaro. La banca, con alcune specificità regionali e culturali, era sempre rimasta una istituzione ibrida di (molto) pubblico e (poco) privato. Troppi gli interessi in gioco nella gestione del risparmio delle famiglie e delle imprese, da poter considerare la banca una impresa come tutte le altre.In particolare nei Paesi latini di cultura cattolico-comunitaria, la dimensione pubblica e statale della finanza era particolarmente forte. Un controllo svolto soprattutto ex-ante ed ex-post, meno durante lo svolgimento dell’attività bancaria-finanziaria ordinaria: i governi e le autorità bancarie e finanziarie intervenivano all’inizio (concessioni, autorizzazioni) e alla fine (in caso di crisi, fallimenti, denunce).Lo scenario è iniziato a cambiare radicalmente con la fine del millennio. Innanzitutto è aumentata la velocità della finanza, se confrontata con quella dell’economia reale e soprattutto con la "lentezza" della politica: le operazioni finanziarie sono talmente veloci che controllarle "prima" o "dopo" è molto difficile, e soprattutto è quasi del tutto inutile. In secondo luogo, la globalizzazione ha ridotto in generale la forza della politica e dei governi in rapporto a quella dei mercati. Ancor di più è diminuita la forza di gestire e regolare i mercati finanziari, che si spostano come vogliono, cercando paradisi (o almeno purgatori) fiscali – il quasi totale e globale fallimento dei vari tentativi di introduzione di serie Tobin Tax et similia, dice anche di questa debolezza. Da ultimo (ma potremmo anche continuare), l’ideologia del mono-mercato, intrecciata con l’ideologia neo-manageriale, ha progressivamente creato in questi anni la convinzione che la banca non è altro che una impresa come tutte le altre (solo con qualche vincolo in più), perché il suo scopo è massimizzare profitti, come tutte le imprese in tutti i mercati. Sono organizzazioni economiche, si sente dire sempre più spesso, che vanno gestite con la stessa cultura, le stesse tecniche, strumenti e cultura di tutte le imprese in tutti i Paesi, da Tokyo a Duala.Questa "triplice alleanza" è alla radice della crisi finanziaria globale degli anni passati, e anche della crisi del nostro sistema finanziario. Qualcuno continua a ripetere che la crisi delle banche italiane dipenda principalmente se non soltanto dal nostro "familismo amorale" e dalle troppe filiali, facendo come chi di fronte a un malato di tumore, per la terapia si basasse sulla diagnosi dell’artrosi di cui il paziente soffre da trent’anni. E, sbagliando diagnosi, si sente sempre più dire che la guarigione delle banche italiane si trova nell’imitare le grandi banche internazionali, viste come l’immagine della salute e del futuro della buona finanza. Il mondo finanziario continua a soffrire per mancanza di pensiero – e con esso soffre anche quello politico.Riusciremo a curare il nostro sistema bancario, nazionale e globale, se riporteremo più democrazia finanziaria dentro le banche, una democrazia che invece dai patron della finanza è vista soltanto come attrito, costo, inefficienza. Dobbiamo ricordare, dire e scrivere due princìpi generali della buona finanza di domani. La governance ordinaria delle banche non può e non deve essere affidata soltanto agli azionisti, ai "padroni" – almeno che non si riesca a separare di nuovo le banche d’affari da quelle che gestiscono i risparmi delle famiglie e delle imprese, operazione ormai molto complessa se non impossibile, poiché oggi quasi tutte le banche sono di fatto banche d’affari.Bisogna allora immaginare i Cda con una quota non piccola di membri  indicati dai cittadini, con meccanismi partecipativi tutti da studiare, ma non impossibili (qualcuno li sta già studiando). E – lo ripetiamo – è urgente affiancare in tutte le banche un comitato etico al Cda, che abbia poteri reali, che accompagni e controlli la gestione ordinaria degli affari. I controlli ex-ante ed ex-post non sono più efficaci nel mondo vorticoso della fast-finance. Alcune banche lo stanno già sperimentando, ma noi cittadini dobbiamo chiedere che questi cambiamenti nella governance avvengano subito e decisamente. In gioco non c’è soltanto il futuro dei nostri risparmi (e sarebbe già molto), ma la sostenibilità delle nostre democrazie.
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