martedì 18 ottobre 2016
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L’addio a Dario Fo e altri funerali, tra fede e ragione Credere in Dio è atto di fede e di ragione. Certo, si vive anche senza credere che ci sia qualcuno che abbia a che fare con la mia vita, i miei sogni, il mio futuro. Dirsi ateo, però, non è facile. È un atto di fede. Non c’è al mondo un fiorellino, una spiaggia, un vulcano, una sorgente che non abbia la sua causa. Causa ed effetto si richiamano a vicenda.

L’ateo pur credendo che Dio non c’è non smette di chiedere un perché alle cose. Jacopo Fo, durante il funerale del suo papà: «Noi siamo comunisti e atei, però mio padre non ha mai smesso di parlare con mia madre e chiederle consiglio... Sono sicuro che adesso sono insieme e si fanno delle grandi risate». Parole di una tenerezza immensa. Un vero atto di fede nell’aldilà. Un grande amico di Fo: «Allegri bisogna stare, perché troppo piangere non rende onore ai nostri amici e perché celebriamo la vita». Non è facile stare allegri davanti a una bara. La morte porta con sé sofferenza e lacrime. 

Nello stesso giorno in cui a Milano si celebravano i funerali di Dario Fo, a Caivano celebravo il battesimo di Alessia, prima e unica figlia di Sara e Nicola uniti in matrimonio un anno fa. Nicola ha potuto accarezzare quella bimba solo per pochi mesi poi, all’improvviso, ha detto addio alla vita. Non aveva ancora 30 anni. Un dolore immenso. Sara, i genitori di Nicola, gli zii di Alessia non riescono a stare allegri. L’acqua per il battesimo della piccola è colma di lacrime. La morte è una cosa terribilmente seria. Soprattutto quando arriva all’improvviso, in giovane età, in modo tragico. Quando si porta via il tuo cuore, il tuo unico figlio, la tua mamma. A volte – come è accaduto ad Amatrice – l’intera famiglia.

E tu devi raccattare le forze e continuare a vivere. Riaffiorano sulle labbra le domande di sempre: «Chi è l’uomo? Qualcuno lo ha voluto o è stato scaraventato sulla terra dal caso cieco?». Durante un funerale in Chiesa, i credenti pregano innanzitutto per il defunto. Perché possa essere ammesso a contemplare Dio. Perché gli vengano perdonati i peccati che ha commesso per la fragilità della condizione umana. Il primo dono è per lui. Ci si rivolge a Dio sapendo di essere ascoltati. Perché Dio è il vivente. Perché il defunto è suo figlio. Non parole di circostanza. Non ricordi. La morte nella visione della fede è una menzogna. Non ha – non può avere – l’ultima parola. È la porta stretta per la quale si accede alla vita eterna.

Come un giorno il defunto lasciò il grembo della mamma per venire al mondo, oggi dice addio alla terra per entrare nell’eternità. La bara e la culla si fondono e si confondono. Cristo ha vinto la morte. È risorto. E chi crede in Lui si addormenta nella speranza di raggiungerlo. Difficile da credere? Certo, ma non impossibile. Siamo nell’ambito della fede, naturalmente. Ma non una fede che contrasti la ragione. Mai come davanti alla morte fede e ragione si rincorrono, si cercano, si riconoscono, si abbracciano.

La morte relativizza tutto. Ci rende tutti bambini capaci di balbettare appena qualche parola. Le lacrime ci affratellano. La ragione sa di non bastare più a se stessa. Ha bisogno di qualcosa che la superi, la oltrepassi, la preceda. La sostenga. Che la guidi dolcemente verso il mistero. Qualcosa che non sia, però, una pia illusione. La scienza al cospetto della morte può solo ammettere di aver terminato il suo mandato. Lo sconforto, il dolore, un profondo senso di smarrimento prendono il sopravvento. Occorre rimanere accanto a chi piange la perdita di una persona cara. Per aiutarlo a portare un peso che lo schiaccia.

Per abbracciarlo e sussurrargli: «Appoggiati alla mia spalla e piangi. Non ne provar vergogna. Piange chi ama. Piangi, ma non disperare. Conta su di me... ». Davanti alla morte a nessuno è dato di cantar vittoria. La morte recide alla radice gli steccati antichi. Le vecchie diatribe si fanno insopportabili. Il mistero è troppo grande per pensare di poterlo esorcizzare. 

Dario Fo non è stato un uomo qualsiasi. Come ogni artista è stato segno di contraddizione. Applaudito e contestato. Osannato e criticato. È normale. Non si può piacere a tutti. Non si deve piacere a tutti. Non entro nel merito della sua carriera. In questo momento non mi interessa. Come tanti cattolici anch’io ho pregato per la sua anima. La preghiera è il dono più bello che un credente può fare a un fratello entrato nel mistero.

Il Duomo di Milano che ha fatto da sfondo al funerale laico di Dario Fo ha il sapore di una metafora. Mi è sembrato invitare credenti e non credenti a guardare oltre. Più in là. A non accontentarsi delle mete raggiunte. A scavare sempre più a fondo. A farsi mendicanti. Cercatori di qualcosa che per davvero possa riempire il cuore. E se questo “qualcosa” si fa “Qualcuno” si può anche rischiare di impazzire dalla gioia. Chi ha trovato in questo mondo opaco tracce di infinito si faccia avanti. Parli. Racconti la scoperta fatta. Mostri la mappa. La posta in gioco è alta. Se c’è un Dio occorre conoscerlo.

Se c’è un paradiso bisogna andarci. Don Primo Mazzolari al funerale di un suo parrocchiano: «Voi, miei cari, accendete fiammelle sulla mia tomba e per me mormorate una preghiera. Papà accende in voi un tremolìo di immortalità. Non soffiatevi sopra. Non tentate di spegnerlo. È il mio regalo per voi. È la mia parola che oggi diventa sacra». Da ogni letto di morte, da ogni sepolcro arriva una parola sacra. Non soffiamoci sopra. Non tentiamo di spegnerla. Non sprechiamola. Facciamone tesoro. Con immensa umiltà.

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