venerdì 28 novembre 2014
Intervento pubblico nell’economia, come e perché si può fare. In una fase come questa a emergere forte è la domanda di protezione di interi settori produttivi.
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Arriva un tempo, nella storia economica di un Paese, in cui il futuro di una comunità si gioca direttamente sulle scelte che farà lo Stato. Non più sulla "mano invisibile" del mercato. È successo nel 2009 negli Stati Uniti, quando Barack Obama non esitò a programmare un intervento pubblico per salvare l’industria dell’auto, allora pericolosamente a rischio. Negli stessi anni, con modalità peraltro discutibili, anche la Germania decise di stanziare ingenti capitali, direttamente dal bilancio pubblico, per garantire la sopravvivenza delle Landesbanken, vero tallone d’Achille del sistema creditizio tedesco. Senza dimenticare quanto sta facendo, in tempi più recenti, la Cina, che alla mano invisibile ha sempre preferito la "mano pubblica", veicolo nell’ultimo decennio di molteplici investimenti in Europa e non solo. Che si tratti di misure d’emergenza o di pianificazione studiata, quando occorre, in tutto il mondo, la risposta è univoca: lo Stato c’è. Senza destare particolari scandali o rivolte.
E in Italia? Scottato da esperienze in cui il settore pubblico ha trasmesso alle aziende che controllava i vizi dell’inefficienza e dello spreco, il nostro Paese ha preferito andare nell’ultimo ventennio in direzione ostinata e contraria, senza rendersi conto che molte privatizzazioni, da Telecom alle municipalizzate, hanno finito per mantenere, sia a livello centrale che a livello locale, gli stessi limiti e gli stessi problemi (a partire da un’eccessiva "politicizzazione" delle scelte strategiche)  che si sperava di aver cancellato, cancellando l’Iri.
La Grande Crisi ha complicato ulteriormente le cose, evidenziando un drammatico lato scoperto: l’assenza di una politica industriale in grado di individuare alcune priorità strategiche per lo sviluppo, da difendere in tutti i modi, perché in grado di garantire competitività e lavoro alle nostre aziende. Consapevolezza, questa, che si poteva evincere settimana scorsa anche dalle parole del cardinale di Genova e presidente della Cei, Angelo Bagnasco, quando chiedeva di «tenere il più possibile in casa i nostri gioielli industriali». In una fase come questa, emerge almeno una domanda di protezione di interi settori produttivi che va soddisfatta al più presto, pena l’impoverimento complessivo del sistema economico nazionale. «Quando chiudi una fabbrica, poi non la riapri più. Ricominciare da zero è impossibile» riflette Giulio Sapelli, storico ed economista di lungo corso. In una situazione in cui si sono persi 20 punti di Pil, in cui sono stati aperti circa 160 tavoli di crisi tra governo e parti sociali, in cui ogni giorno svaniscono mille posti di lavoro, «è un fatto positivo che non sia più un tabù parlare di intervento pubblico – sottolinea Cesare Pozzi, docente di Economia dell’impresa alla Luiss di Roma –. Semmai dobbiamo chiederci che cosa può fare davvero lo Stato». Quando, se non ora, il motore della ripresa della stessa domanda di mercato può essere attivato dal settore pubblico, attraverso investimenti e acquisizioni? In Germania, Deutsche Post si è mossa come operatore pubblico compiendo un’enorme campagna acquisti, fino a inglobare il colosso Dhl. Poi si è quotata in Borsa, aprendo il proprio capitale ai privati. Così facendo, ha preservato gli interessi della comunità nazionale, facendo politica industriale. Lo stesso può dirsi per l’industria della difesa negli Usa.
Da noi lo sbarco a Piazza Affari di Poste Italiane è stato rinviato a tempi migliori e, sia pur timidamente, il mondo della politica e quello dell’impresa stanno facendo autocritica sulle (non) decisioni operate in un comparto "pesante" come l’acciaio. La necessità di un intervento dello Stato, comunque temporaneo, in un colosso come l’Ilva mette d’accordo in maniera insospettabile esponenti del Pd come Massimo Mucchetti e imprenditori del calibro di Alberto Bombassei, oltre a non dispiacere ai produttori di casa nostra. Ma come può avvenire? L’ipotesi di un impegno della Cassa depositi e prestiti nel colosso di Taranto è da escludere, perché la società controllata dal Tesoro per statuto non può che investire in aziende in bonis. Per questo, si è fatta strada l’idea di un ingresso di Cdp in soggetti interessati all’operazione Ilva, come Marcegaglia e Arvedi. Si torna dunque a una sorta di Iri, riveduta e corretta? «No. Cassa depositi e prestiti mi sembra più un ospedale da campo, l’Iri almeno era una grande clinica» ironizza Sapelli. «Cdp assomiglia sempre di più a una banca e non può continuare a surrogare quello che non c’è» aggiunge Pozzi.
Quel che manca sembra essere proprio una "visione" di sistema, capace di integrare in un solo progetto più aree di crisi: l’acciaio, l’auto, gli elettrodomestici, tanto per citarne alcuni. Servirebbero nuove filiere produttive per una nuova manifattura. Servirebbero forse anche dei  nuovi Mattei, uomini in grado di indicare una direzione di sviluppo più forte e convincente dei parametri finanziari imposti dall’Europa. «C’è un motivo se l’Italia non può permettersi di salvare le banche, come per fortuna non è accaduto con Montepaschi, e neppure di assorbire in continuazione eventuali perdite private nel proprio bilancio attraverso il salvataggio di imprese industriali a rischio – argomenta Andrea Monticini, economista della Cattolica di Milano –. Il motivo risiede nel fatto che si rischia di sostituire debito privato con debito pubblico e questo, francamente, non possiamo più permettercelo». Per questo, gli spazi di manovra per l’intervento dello Stato andrebbero limitati, secondo Monticini, a «un grande piano di riqualificazione dei lavoratori. Dobbiamo indirizzare i nostri quarantenni verso industrie e imprese ad alto potenziale futuro: i modelli nel Nord Europa ci sono e lo stesso Jobs Act prevede azioni del genere».
Si torna al punto di partenza: uno Stato che si dimostri solido ed efficiente, in una fase storica come questa, può pensare tranquillamente di dire la sua nella grande sfida globale. In caso contrario, rischia di essere messo in un angolo e finirà per consegnare armi e bagagli, stabilimenti e consigli di amministrazione, a manager di multinazionali in arrivo da oltreconfine. «Sarebbe necessaria subito un’Agenzia governativa, sul modello di quanto è previsto in America, con pieni poteri e grandi risorse a disposizione» riprende Pozzi. La missione? Salvare il salvabile, evitare nuovi processi di desertificazione industriale, investire fondi pubblici sulle nuove infrastrutture di rete, riattivare la domanda di occupazione. Non è molto, ma sarebbe già qualcosa.
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