mercoledì 29 giugno 2016
Un'analisi dell'esponente cattolico della Camera dei Lord: ora niente recriminazioni, occorrono teste sagge e nervi d’acciaio. di David Alton
Negoziati pazienti, senza recidere i legami di Antonio Preto
Lord Alton sulla Brexit: no a superstato europeo
COMMENTA E CONDIVIDI
Nel 1968, partecipando al mio primo comizio politico, ascoltai un esperto, competente ma un po’ noioso, esaltare le virtù del mercato comune. Le sue ragioni, ma, ancora di più, le esperienze di guerra di mio padre e di mio nonno, mi convinsero che più mascelle e meno guerra – se posso citare una famosa frase di Churchill, – erano una buona ragione per entrare nel mercato comune. Mio papà aveva combattuto a Monte Cassino e nel deserto nordafricano, suo fratello era stato ucciso nella Raf e suo padre era stato nelle trincee delle Fiandre e, più tardi, in Mesopotamia e in Terra Santa. Come cattolico avevo altre ragioni per sostenere il libero mercato e l’allora Comunità Economica Europea.
 
 
Adenauer, Monnet, Schumann, De Gasperi e gli altri padri fondatori cattolici dell’Unione Europea erano stati tutti formati dalle strazianti esperienze del nazismo e del fascismo. Tutti forgiati dai principi umanisti cristiani: sussidiarietà, solidarietà, promozione del bene comune, una fede nella giustizia sociale e nella riconciliazione. Mi ha sempre deluso che le scuole britanniche – e le 2200 scuole cattoliche qui non fanno differenze – non hanno mai inserito, nel programma scolastico, un corso che spieghi quegli eventi e la visione dei padri fondatori.
 
 
È una lacuna davvero deplorevole. Il mio collega Lord Peter Hennessy, anche lui cattolico, che è anche il più famoso storico contemporaneo del Regno Unito, ha descritto benissimo, con questa frase, piena di humour inglese e molto vera, il rapporto tra i britannici e l’Unione Europea. «L' Europa è stata avviata da burocrati francesi intelligenti, cattolici e di sinistra. La maggior parte dei britannici si trova a disagio con almeno tre di questi cinque gruppi». Ma questi non sono mai stati, a dire la verità, problemi insormontabili. Nel 1975, durante l’altro referendum sull’Europa, da giovane politico, a Liverpool, mi sono battuto nella campagna elettorale perché la Gran Bretagna rimanesse nella Comunità Economica Europea e il 67% dei cittadini britannici mi diedero ragione.
 
E allora che cosa non ha funzionato questa volta? Nel 1992, al momento della promulgazione del Trattato di Maastricht, ho criticato le élites politiche perché correvano troppo veloci per l’opinione pubblica e, nel 2007 mi sono espresso contro il Trattato di Lisbona nella convinzione che mettesse a rischio molto di quello che la Comunità Europea aveva ottenuto. La maggior parte dei britannici, probabilmente, crede ancora in una Comunità libera di nazioni Europee, ma, certamente, non in un superstato centralizzato con una serie di politiche, dalla moneta unica a un esercito europeo, che vengono applicate indifferentemente a Paesi diversi tra loro. Ho votato per rimanere nel referendum della scorsa settimana, ma non credo negli Stati Uniti d’Europa ed è stata l’idea che si andasse verso questo futuro che ha convinto molti a votare “leave”.
 
 
Da cattolico penso che un tale superstato non risponda al principio di sussidiarietà. Non c’è mai stata volontà popolare per fare il passaggio dalla comunità di nazioni agli Stati Uniti d’Europa e il fatto che i politici abbiano ignorato milioni di persone, che la pensavano così, ha messo a rischio, adesso, tutte le cose positive che sono state raggiunte. Se, nel giugno 2016, ci fosse stata una terza domanda sulla scheda, “rimanere ma riformare”, penso che la maggioranza dei britannici avrebbe scelto questa possibilità. Non c’è appetito, per gli Stati Uniti d’Europa, non solo in Gran Bretagna ma anche nella gran maggioranza degli altri Stati europei che vogliono avere forti alleanze mantenendo, però, intatta la loro identità come nazioni. 
 
 
Benché, insieme alla mia famiglia, abbia votato per rimanere nell’Unione Europea, ho previsto una vittoria per il campo del “leave”. Incolpo di questo i politici, sia di Westminster sia europei, che si sono allontanati dalle persone che dovrebbero rappresentare. Non ha aiutato molto che Jean-Claude Juncker, pochi giorni prima che la Gran Bretagna votasse, dicesse agli elettori britannici che non avrebbe importato molto come avrebbero votato. Oggi lo stesso Juncker sembra determinato, con cattiveria, a ottenere vendetta e punire i britannici. Un’arroganza prepotente non certo degna dei padri fondatori. Continui così e non sarà soltanto il Regno Unito che chiede di uscire dall’Unione Europea ma anche gli olandesi, i danesi, gli svedesi, i polacchi, i cechi, gli slovacchi e gli ungheresi.
 
 
Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi dovrebbero impegnarsi a salvare i resti del terribile incidente che è stato questo referendum e alcuni di coloro che hanno usato toni populisti e xenofobi devono anche capire che è molto più facile sollevare la tempesta che calmarla. I divorzi hanno sempre conseguenze terribili ma qualsiasi buon mediatore incoraggia il dialogo per evitare gravi danni ai figli e non la rapida eliminazione dei beni e la distruzione della casa della coppia. La Riforma protestante che, quattrocento anni fa, ha diviso le chiese cristiane in Europa, con conseguenze con le quali viviamo ancora oggi, ci ha insegnato che è molto più facile rompere qualcosa che riformarlo. L’Europa ha bisogno della Gran Bretagna e la Gran Bretagna ha bisogno dell’Europa proprio come è capitato durante le due guerre mondiali. La Gran Bretagna esce divisa dalle urne ma anche l’Europa infliggerà una ferita mortale a se stessa se cerca di isolare e punire i 17,5 milioni di britannici che hanno votato per lasciare l’Ue. Nel 1907 lo scrittore cattolico G. K. Chesteron pubblicò il suo poema “Il popolo segreto” che parla di gente comune, che non veniva ascoltata ed era dimenticata, e diceva a chi la comandava: «Sorrideteci, pagateci, oltrepassateci ma non dimenticateci perché noi siamo la gente di Inghilterra che non ha ancora parlato». Quando la classe politica – soprattutto quella di sinistra la cui leadership sta andando a pezzi, in questo momento, nel Regno Unito – disprezza i sostenitori del Brexit definendoli razzisti e xenofobi non sta ascoltando i milioni di persone nascoste del poema di Chesterton.
 
 
Questa – non c’è dubbio – è la sfida, per la Gran Bretagna e l’Europa continentale. Come possiamo trasformare questa crisi in un’opportunità per migliorarci moralmente e riformarci davvero? L’articolo 50 del Trattato di Lisbona – che il Regno Unito dovrà invocare per cominciare il processo di separazione – richiede che «l’Unione Europea tenga conto del contesto del suo futuro rapporto con la Gran Bretagna». Questa condizione dovrebbe ora essere la base per una reinterpretazione dei rapporti europei. La possibilità, per coloro che lo vogliono, di vivere in una comunità anziché in una unione. Invece di recriminazioni abbiamo bisogno di teste sagge, nervi d’acciaio e mani ferme per ritornare ai principi dei padri fondatori per vedere se, dentro la cornice della sussidiarietà, della solidarietà e del bene comune, vi siano strutture che ci consentano di vivere insieme in amicizia, nella diversità e nel rispetto reciproco.
 
*Membro della Camera dei Lord (Traduzione di Silvia Guzzetti)
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: