mercoledì 29 aprile 2015
Senza strappi, le diplomazie lavorano. I rapporti tra Pechino e la Santa Sede hanno come posta principale la sorte  dei cristiani nel gigante asiatico. di Agostino Giovagnoli 
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Si parla molto, oggi, dei rapporti tra Cina e Vaticano, da sempre oggetto di grande interesse, ma anche di accese discussioni, intrecciate a forti passioni ideologiche. Non va dimenticato, però, che sono in gioco soprattutto il presente e il futuro dei cristiani in Cina. E chi si trova in una situazione privilegiata di tranquillità non può disinteressarsi della sorte di quanti vivono in grandi difficoltà. È stata proprio la preoccupazione per i cattolici cinesi a ispirare nel 2007 la 'Lettera' scritta loro da Benedetto XVI, con cui li invitava a cercare la piena comunione superando, attraverso «perdono e riconciliazione», le divisioni tra «ufficiali» e «clandestini» («la clandestinità – aggiungeva – non rientra nella normalità della vita della Chiesa»). La 'Lettera' ha prodotto diversi frutti, di cui si avverte oggi un riflesso nella fiducia verso il Papa e le sue decisioni, sempre più esplicita sia nei «clandestini» sia negli «ufficiali», anche riguardo a possibili intese tra Santa Sede e Governo di Pechino.   Il problema della Chiesa in Cina andrebbe affrontato anzitutto sotto il profilo teologico ed ecclesiale piuttosto che diplomatico e politico? Qualcuno lo pensa. Prima i princìpi e poi le trattative.  Sottinteso: niente compromessi. Ma anche i princìpi teologici camminano sulle gambe degli uomini, non si affermano in astratto bensì attraverso concreti processi storici e lo slancio missionario del cristianesimo si è sempre misurato con gli Stati e la politica. Tutto ciò richiede tempo e gradualità che non vanno confusi con compromesso, cedimento o tradimento. Lo dimostra ampiamente la storia europea, da cui emerge anche che spesso la teologia si è servita pure della diplomazia. Nel caso della Santa Sede, inoltre, quest’ultima è profondamente cambiata e da tempo non è più strumento di potere, ma servizio all’impegno di pace del «padre comune» di tutti i popoli e della sua sollecitudine per tutti i cattolici (e per tutti i credenti). E se davvero si vuole promuovere la pace globale è oggi necessario avere contatti anche con la Cina, come ha osservato recentemente il segretario di Stato, cardinal Pietro Parolin. Da tali contatti dipende anche la situazione della Chiesa cinese.   Per la Santa Sede non è facile dialogare con interlocutori comunisti. Ma, come scriveva Benedetto XVI nel 2007, «la Santa Sede rimane sempre aperta alle trattative» con tutti, compresi Cuba o Vietnam, perché cerca l’uomo al di la della politica e l’apporto di chiunque al bene comune. Ed è fuorviante il richiamo troppo insistito all’Ostpolitik e cioè alle relazioni tra la Santa Sede e i Paesi del blocco sovietico prima del 1989 (che oggi molti criticano senza comprenderne né il contesto storico né il senso profondo). La Cina infatti è un grande Paese, con una civiltà millenaria, non assimilabile al mondo del comunismo europeo. È più appropriato collegarsi al filo specifico dei rapporti sino-vaticani, a partire dalla prima iniziativa verso la Santa Sede presa da Pechino nel 1886.  Questa lunga storia mostra tra l’altro che da Roma è possibile valutare questi rapporti meglio che da qualsiasi capitale europea o occidentale. Naturalmente, si possono aiutare i cattolici cinesi da tutti i Paesi, ieri ad esempio dalla Francia e oggi da Hong Kong. Ma ieri la prima aveva una pretesa colonialista verso la Cina e oggi la seconda vive con angoscia la sua crescente dipendenza da Pechino. A Roma, invece, si respira più che altrove l’universalità del cattolicesimo, svincolata dalla parzialità delle prospettive nazionali. Un esempio luminoso in questo senso è rappresentato da monsignor Celso Costantini, primo delegato apostolico in Cina nel 1922, che pensava a Pechino come a una «Quarta Roma», centro di irradiazione del Vangelo in Cina e in tutta l’Asia.   Molte discussioni sui cattolici in Cina si concentrano sul tema della libertà religiosa. Di fatto, porre tale libertà come condizione preliminare significa subordinare il dialogo a un radicale cambiamento politico, peraltro non imminente. Nella sua lettera del 2007, però, Benedetto XVI ha scritto che «la Chiesa cattolica che è in Cina ha la missione non di cambiare la struttura o l’amministrazione dello Stato, bensì di annunziare agli uomini il Cristo». E ha aggiunto: «la soluzione dei problemi esistenti non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime Autorità civili» (pur senza alcuna «arrendevolezza»). È questa la direzione in cui occorre muoversi. E, finora, la diplomazia vaticana si è mossa giustamente con molta cautela. Nessuno, ad esempio, pensa oggi alle relazioni diplomatiche tra le due parti.  E sono infondate le voci che rimproverano alla Santa Sede eccessiva debolezza o, addirittura, una corsa all’accordo: chi tratta il dossier cinese sa che tale dossier procura poche soddisfazioni e molte critiche. Ma le difficoltà dei cattolici cinesi spingono ad agire. Troppe, infatti, sono state le occasioni perdute.   Veniamo da anni difficili. Dopo la rottura del dialogo tra le due parti, nel 2010 sono riprese le ordinazioni illegittime e cioè senza l’approvazione del Papa. Ci sono state anche altre conseguenze dolorose e si è parlato pure di scomuniche sebbene, come avvertiva Benedetto XVI, «ogni caso dovrà essere vagliato singolarmente, tenendo conto delle circostanze». Lentamente, poi, il conflitto si è attenuato. Nel vuoto di rapporti tra le due parti, si è inserita positivamente un’iniziativa del cardinal Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, per ricordare la 'Lettera' del 2007. Nel 2013, in Cina l’elezione del presidente Xi Jinping ha portato una ventata di novità in tutti i campi. Negli stessi giorni, un novità ancora più grande è venuta dall’elezione di papa Francesco, che ha subito inviato un messaggio di auguri al nuovo presidente cinese. È stato l’inizio di una serie di gesti di amicizia, ricambiati dall’attenzione del governo – mai un Papa aveva sorvolato lo spazio aereo cinese – e dalla simpatia dei mass media. Non è mai successo che i gesti e le parole di un Papa raggiungessero così diffusamente i cittadini di questa Repubblica popolare.   In questo contesto, si è cominciato a ragionare nuovamente di nomine episcopali. C’è chi preferirebbe che si partisse da altro. Ma è questa la ferita che più fa soffrire. A partire dal 2006, le autorità di Pechino hanno cominciato ad ammettere che le ordinazioni episcopali non sono solo un affare interno cinese e a riconoscere che il Papa ha diritto a intervenire. Non ne sono state però ancora tratte conseguenze concrete. Se ci fossero, costituirebbero un importante passo avanti, anzitutto sul piano dell’affermazione dei princìpi: sarebbe un successo della teologia attraverso la diplomazia. E sul piano pratico si aprirebbe una stagione profondamente nuova, senza più l’incubo delle ordinazioni illegittime. Ovviamente, l’obiettivo può essere raggiunto in modi differenti. La storia mostra molti casi di vescovi nominati da imperatori, re, presidenti della repubblica, parlamenti, ma è certo preferibile che il ruolo del potere politico sia limitato.  È quanto ha opportunamente suggerito padre Federico Lombardi, richiamando l’esempio degli accordo tra Santa Sede e Vietnam, in una intervista molto apprezzata da parte cinese. Curiosamente, le sue parole hanno invece suscitato obiezioni in alcuni ambienti cattolici, come se davanti a scelte conclusive prevalesse la paura di decidere. Indubbiamente, non esiste mai la garanzia assoluta che un patto sia rispettato da coloro che lo sottoscrivono. Fa però riflettere l’alternativa a un’intesa, prima o poi, fra le due parti: la certezza che riprenderanno le ordinazioni illegittime con tutte le loro dolorose conseguenze. Oggi, infatti, l’alternativa ad un male certo come questo non sarebbe un male minore, ma un bene possibile, per quanto parziale e limitato, e forse anche un bene probabile.
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