sabato 19 novembre 2011
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Nell’infuriare della crisi economica dell’Unione Europea, di cui anche il nostro Paese soffre le pesanti conseguenze, l’Africa nera è ancora una volta scomparsa dalla ribalta massmediatica.Siamo tutti preoccupati dello «spread» e degli ondeggiamenti imprevedibili della Borsa e dimentichiamo quali sono i valori indispensabili per uscire dalla crisi. Valori che pescano nelle profondità dell’uomo, e che resistono alle tempeste dei mercati. Il viaggio di Benedetto XVI si presenta come una boccata d’aria fresca nell’asfittica atmosfera di pessimismo che si respira.Due espressioni del Papa vanno ricordate. Rispondendo in aereo alla domanda di un giornalista, ha tessuto l’elogio del popolo africano: «Questa freschezza della vita che c’è in Africa, questa gioventù piena di entusiasmo e di speranza, ma anche di umorismo e di allegria, ci mostra che c’è qui una riserva umana, una freschezza del senso religioso, una percezione della realtà nella sua totalità con Dio; non questa riduzione al positivismo, che restringe la nostra vita, la fa un po’ arida e spegne anche la speranza… Un umanesimo fresco quello che si trova nell’anima giovane dell’Africa … Qui c’è ancora una riserva di vita e di vitalità per il futuro, sulla quale possiamo contare».E all’aeroporto della capitale Cotonou, rispondendo al saluto del presidente del Benin Bony Yayi, ha sottolineato che il passaggio alla modernità deve essere guidato da criteri che si radicano nella dignità della persona, nella grandezza della famiglia e nel rispetto della vita, in vista del bene comune.Benedetto XVI è lì per consegnare ai vescovi e alle Chiese africane il risultato del Sinodo episcopale svoltosi nell’ottobre del 2009. Ha scelto quella terra perché la storia della evangelizzazione di questo Paese è esemplare di quanto ha detto nei due passaggi citati. Oggi il Benin è uno dei (non molti) Paesi dell’Africa nera che ha raggiunto la stabilità politica e una democrazia compiuta, lo sviluppo economico–sociale e la pacificazione fra le varie etnie, traguardi che lo rendono in qualche modo esemplare per l’Africa nera. L’inizio di questo cammino virtuoso è ricordato nella celebrazione dei 150 anni di evangelizzazione, iniziata quando padre Francesco Borghero di Ronco Scrivia (Alessandria), insieme a dodici fratelli e sorelle, fu il primo missionario Sma (Società Missioni Africane di Lione) a sopravvivere sulle Coste dell’Africa Occidentale, poiché allora i missionari – ricordano le cronache del tempo – morivano «come mosche». Borghero vi fondò la Chiesa nell’appena creato Vicariato del Dahomey (1860) che allora si estendeva dal Ghana alla Nigeria attuali. La sua “Relazione sulle missioni” è un’autentica miniera di informazioni sull’Africa del tempo. «Questo Paese è caratterizzato da un crudo feticismo – si legge tra l’altro –, il culto del serpente, la barbarie del suo re e la schiavitù». I primi cristiani furono schiavi africani liberati dai portoghesi in Brasile e venuti in Dahomey con meticci portoghesi per collaborare con Borghero.Il seme sparso dai missionari è stato fecondo: nel 1901 il Dahomey aveva 7.500 battezzati, nel 1929 erano diventati 24mila, oggi nel Benin i cattolici sono circa 3,2 milioni su una popolazione di 8 milioni e, con i protestanti e gli anglicani, costituiscono il 70 per cento dei beninesi. A distanza di un secolo e mezzo, il Paese incarna i valori e le virtù umane ed evangeliche che l’influsso delle missioni cristiane ha contribuito a far crescere. Le élite nazionali sono ancor oggi uscite in buona parte dalle scuole che i missionari hanno fondato fin dalla seconda metà del diciannovesimo secolo. Un seme di civiltà e di sviluppo che ha portato frutto per tutta quella terra.
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