giovedì 6 ottobre 2016
​Sale la pressione sui profughi a Bangkok. A fare le spese del recente giro di vite sull'immigrazione sono soprattutto i cattolici che arrivano da Islamabad. (Stefano Vecchia)
I cristiani pachistani ora temono la Thailandia
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Le bombe esplose in diverse località a vocazione turistica del meridione thailandese l’11 e 12 agosto, hanno avuto un effetto collaterale pressoché ignorato, ma che ha gettato nella costernazione chi vede ora ancora più a rischio una condizione già precaria. Sarebbe imminente infatti il temuto giro di vite contro l’immigrazione irregolare in Thailandia, motivato da esigenze di sicurezza. I cristiani, si calcola la metà dei 10mila pachistani profughi nel Paese, sarebbero maggiormente colpiti e anche per questo vanno moltiplicandosi gli appelli affinché organismi internazionali e diplomazie intervengano per impedire, magari con l’accoglienza in un paese terzo, un rientro in patria dove andrebbero incontro, secondo le loro stesse parole, a «una vita infernale».«Sono davvero preoccupata. Tutti temiamo che i soldati e poliziotti vengano a rastrellarci e portarci via. Conosciamo bene il pessimo trattamento del centro di detenzione e nessuno di noi vuole andarci», ha segnalato la ventenne Kathriya Louis, che con la famiglia vive nella totale incertezza del futuro e cerca in qualunque modo di non farsi notare, di confondersi tra i turisti pur di di evitare l’arresto. Una tensione che estende e aggrava la terribile situazione che l’ha spinta a fuggire dalla terra d’origine. «I nostri vicini musulmani ci erano ostili perché siamo cristiani. Ogni volta che pregavano oppure ascoltavamo musica di carattere religioso rischiavamo che entrassero nella nostra casa e ci aggredissero. Spesso i miei fratelli erano coinvolti in controversie e subivano insulti quotidiani». Fino a quando ci fu l’attacco di un gruppo di estremisti che traumatizzò la famiglia al punto da spingerla alla fuga. «In molti altri Paesi ai pachistani è vietato l’ingresso. Abbiamo anche seguito il consiglio del nostro pastore – ricorda Kathriya – che ci ha parlato dei profughi in Thailandia e ci ha incoraggiato prospettando la protezione dell’Onu».È un fatto che la maggior parte dei partenti, spinti da una urgenza che a volte è soverchiante, ignorano che l’antico Siam non ha firmato la Convenzione delle Nazioni Unite per i rifugiati del 1951 e di conseguenza, senza riconoscimento legale, molte famiglie rischiano periodi di durata incerta di sostanziale carcerazione prima che possano ottenere il rilascio su cauzione, il rimpatrio coatto oppure la ricollocazione altrove. Per la serie continua di attacchi, da quattro anni, ma con un’accelerazione dopo la strage di Pasqua 2016 rivendicata da una affiliazione dell’Is a Lahore, con 75 morti e oltre 30 feriti in buona parte cristiani, l’afflusso di profughi è andato intensificandosi.La scelta della Thailandia è influenzata da vari fattori. La relativa vicinanza al Pakistan, la possibilità per i pachistani di ottenere un visto turistico di 30 giorni, la tolleranza finora verso aree di illegalità che non fossero destabilizzanti per la società locale. Anche – sottolinea Jeffrey Imm, attivista per i profughi a Bangkok – la sensazione che davanti alle migliaia di vittime nelle regioni meridionali dovute al confitto tra governativi e estremisti musulmani, governo e popolazione thailandesi siano più simpatetici con la loro causa. Forse una sottovalutazione della situazione attuale del Paese, sotto controllo militare da oltre due anni, che vede nei profughi un doppio problema: uno oggettivo di reperire risorse per dare loro l’assistenza necessaria; uno di immagine perché pone ancor più il Paese in una evidenza internazionale di cui farebbe volentieri a meno se non per accogliere investimenti già rarefatti rispetto a passato.Solo la pressione esterna, sovente associata alla minaccia di sanzioni commerciali, infatti, ha costretto chi controlla il Paese a agire con sollecitudine dopo anni di inerzia per rispettare obblighi internazionali nel campo della lotta alla tratta di esseri umani e allo sfruttamento di manodopera locale e straniera nell’industria ittica e nell’agricoltura, del diritto d’autore e della reciprocità commerciale e doganale. Così si è andati verso una maggiore rigidità nell’applicazione delle sanzioni e pene previste per chi supera la durata dei visti o non ne rispetta la tipologia.Una situazione mostrata anche in un documentario della britannica Bbc lo scorso febbraio, che se ha sollevato ulteriore consapevolezza del fenomeno, non ha avuto alcuna ricaduta positiva su una situazione che è andata peggiorando. L’Associazione cristiana dei pachistani in Gran Bretagna ha segnalato che a inizio agosto a una ventina di attivisti umanitari è stato impedito di fornire cibo ai profughi nei centri di detenzione, come pure che ora – variamente motivata – viene negata ai parenti dei detenuti la possibilità di visitarli. In molti casi i detenuti hanno con sé i loro bambini, quella che per le autorità di Bangkok è una concessione ai 'desideri delle famiglie'. Tuttavia, è un fatto che il Paese è firmatario delle leggi internazionali che regolano il trattamento umano dei prigionieri e che proibiscono l’incarcerazione di minori, in particolare in strutture detentive per adulti.Allo stesso tempo, «una situazione assai difficile» impedisce a chi resta fuori di godere di sicurezza, ma anche di possibilità di sostentamento. Come ricorda Imm, fondatore della Ong Real (Responsible for Equality and Liberty), i fuggiaschi «non possono lavorare, devono fuggire e nascondersi continuamente, non possono guadagnare, non possono disporre di cibo adeguato o di un rifugio, non possono avere medicinali. Di conseguenza, tutto quello che è necessario alla sopravvivenza deve essere fornito da altri». Una situazione insostenibile, accentuata dall’incertezza delle prospettive. Prima del 2013, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati impiegava mesi per attribuire la qualifica di rifugiato, ma le chiese e congregazioni cristiane locali riuscivano a soddisfare le necessità essenziali dei profughi. Ora, con anni di attesa, la situazione è drammatica anche sul piano assistenziale. Anche per salvare il maggior numero possibile di individui dalla detenzione. Il pagamento di una cauzione è l’unica soluzione, ma il costo superiore a 1.000 euro la rende possibile solo per alcuni.Il numero di profughi intanto continua a crescere e con esso il rischio dell’espulsione per tutti. Sono 11.500 i richiedenti asilo di ogni provenienza in Thailandia, più di ogni altro Paese, escluso il Myanmar, dove la situazione è sostanzialmente simile; difficile ma con maggiori tutele in Malaysia; comunque pessima a Hong Kong, Singapore e Sri Lanka. Sono diverse le voci che accusano l’Unhcr di usare con i pachistani in fuga standard diversi rispetto a profughi musulmani o cristiani di altra provenienza e sono anche molti quelli che chiedono all’Europa di aprirsi all’accoglienza umanitaria dei cristiani del Pakistan.
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