martedì 30 dicembre 2014
Futuro, prossimo, mitezza fiducia. Per Giacomo Poretti sono queste le quattro parole che devono guidarci nel nuovo anno. Anche a costo di buttar via ogni vecchio vocabolario...
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Quando un anno si è fatto anziano e sta per essere collocato nella casa di riposo della storia, ci si rivolge al giovine che avanza con preghiere, suppliche e desideri. Io ho pensato di chiedere in regalo al nuovo anno che verrà delle parole. Tutti in questo periodo dell’anno chiediamo qualche cosa: se si è fanciulli a Gesù Bambino si chiedono dei doni sotto forma di gioco, in cambio di una maggior obbedienza ai genitori, o di una collaborazione a sistemare la cameretta dopo che si è abbattuto lo tsunami dei Lego e Playmobil. Se sei un lavoratore dipendente, in questo momento chiedi ai tuoi santi lassù di non farti perdere il posto di lavoro. Se sei un genitore di un figlio adolescente, chiedi che il suo angelo custode lo protegga tutte le volte che esce di casa dalle insidie dell’età più entusiasmante e più balorda che un essere umano possa sperimentare. Se sei uno che ha parcheggiato l’auto in seconda fila, supplichi il vigile di graziarti dalla rimozione con il carro attrezzi, perché tu «stavi accompagnando la nonna con le stampelle in gioielleria»; ma il vigile sarebbe stato anche disposto a crederti, se solo la nonna non avesse avuto ventotto anni. Se sei un tifoso dell’Inter speri che il tuo presidente, quello con il braccino corto, ti compri qualche giocatore che non sfiguri a giocare in Serie A. Se sei uno che domani hai un compito in classe in trigonometria, preghi che il tuo professore venga condannato all’ergastolo per aver omesso di pagare il canone Rai. Se sei quello che ha chiesto alla sua collega dai capelli rossi di fidanzarsi con te, speri che un meteorite distrugga tutti gli esseri umani di sesso maschile tranne te. Io voglio chiedere delle parole, delle parole che rischiano di scomparire perché nessuno le nomina più. Futuro, prossimo, mitezza, fiducia. Invece, senza che ce ne accorgiamo, stiamo subendo la dittatura di altre parole: passato, io, guerra, depressione. Futuro perché nessuno sembra credere più all’esistenza di questa forma verbale, tutt’al più ci si trastulla ad evocare nostalgicamente il passato prossimo o si rimane sconcertati e abulici nell’indicativo presente, insomma il gerundio di «mi sto deprimendo» è il verbo che ci descrive meglio. E poi, confessiamolo, ci sono dei momenti in cui saremmo anche tentati dal buttarci tra le braccia di qualcuno che ci parli solo all’imperativo: il problema è che nessuno, per fortuna, sa parlare questa forma di linguaggio in uso nei primi decenni del secolo scorso, di questi tempi uno può azzardare al massimo il condizionale o più miseramente invocare la condizionale. Io ho fiducia nel futuro, perché futuro significa immaginare qualche cosa di diverso, significa desiderare di cambiare le cose che non funzionano più, significa essere disponibili alle novità, significa uscire da se stessi e rendersi disponibili alle varietà del mondo. Ma per desiderare il futuro bisogna essere disposti ad accorgersi che esista il prossimo, non esiste un qualsiasi futuro se non in compagnia degli altri. Gli altri, oltre che essere possessori dei nostri stessi diritti, ed essere fatti a immagine e somiglianza di Colui che ha avuto la bella idea di creare la vita, gli altri, dicevo, hanno la stessa nostra dignità, anche se noi spesso siamo convinti di essere più degni di chiunque altro, presidente degli Stati Uniti compreso: si sa, gli altri vestono peggio di noi, sono meno intelligenti di noi, soffiano il naso in una maniera irritante, camminano in maniera goffa, insomma saremmo anche disposti ad amare l’umanità, ma l’uomo singolo e particolare come si fa? Dobbiamo rassegnarci a farci andar bene gli altri, i quali, tra l’altro, sono anche utili: pensate se non ci fosse il dentista a curarci una carie tre ore prima del cenone di San Silvestro, o se non ci fosse il macellaio a venderci il cotechino: dovremmo rincorrere noi il maiale e convincerlo a farsi prosciutto; e se non esistesse il fornaio chi le farebbe le michette? E ditemi se non è necessario, oltre che benedetto, l’enologo che ha inventato il prosecco! E come faremmo a vivere senza il farmacista che ci vende l’antibiotico per la laringo-faringite? E non finiremmo forse al manicomio se non ci fosse il tecnico dei computer che pazientemente sistema i nostri disastri informatici? Per non parlare dell’idraulico quando si rompe il lavandino in bagno, o del bagnino che soccorre la nonna quando decide di andare al largo da sola! Insomma mi sa che è vero il contrario: senza gli altri questa vita sarebbe proprio un bell’inferno! La parola che sto per chiedere ora rischia davvero l’estinzione: mitezza. È una delle parole più maltrattate, irrisa, considerata antica, fastidiosamente illogica e irreale, oltre che irrealizzabile. La mitezza è relegata in qualche romanzo, in qualche rara canzone, sicuramente nelle poesie e nella Bibbia. Qualcuno ha scritto da qualche parte che se si è miti si contribuisce ad abbassare l’aggressività nel mondo, ed ognuno può contribuire a fare che accada. Però la vita sul pianeta terra nel 2014 richiede aggressività, competizione, cinismo, orgoglio, ambizione. Sarà dura per la mitezza rientrare nel nostro dizionario, forse sarà più facile per l’Inter accedere alla Champions League. E infine la fiducia. Non sappiamo più in chi riporla: non in questi politici, che riescono a stupirci negativamente ogni giorno, dove il fondo dell’orrore sembra non arrivare mai; non in questa Europa che sembra disinteressarsi dei suoi cittadini; non in questa Inter che sembra destinata alla mediocrità per altri lustri; non in questa economia che sembra badare solo a se stessa; non in questa tecnologia che ci sorride solo per due anni poi è ora di cambiarla. Qui si fa durissima: forse dovremmo cominciare ad avere fiducia in noi stessi, e non vergognarci di immaginare e desiderare un futuro differente, da pensare e condividere con gli altri, e anzi cominciare ad azzardare che gli altri non ci danno solo fregature. Si tratta di avere fiducia. La fiducia è il primo atto di fede, significa ammettere che non ci siamo fatti da soli, e che l’atto di creare, inventare, costruire è fatto solo con o per gli altri, niente è fatto solo per se stessi, anche il gesto di più alta vanità richiede un altro che la riconosca. Per questo anno nuovo auguro a tutti di possedere un nuovo dizionario.

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