sabato 16 marzo 2013
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La verità ha faticato ad emergere. Ma a mano a mano anche il dolore ha lasciato il posto alla riappacificazione, per una «vicenda chiusa» e che adesso finalmente lo fa sentire «riconciliato con quegli eventi». Padre Franz Jalics, gesuita ungherese missionario in Argentina negli anni della dittatura militare, ha voluto scrivere la parola «fine» alle illazioni con cui da anni viene alimentata la falsa leggenda di un Bergoglio cinico a tal punto da vendere due confratelli alla polizia militare.
Jalics è uno dei due gesuiti arrestati e torturati per cinque mesi, nel 1976, con l’accusa di aver fiancheggiato i guerriglieri comunisti. Papa Francesco, allora giovane padre provinciale dei gesuiti argentini, secondo alcune accuse non avrebbe protetto i due confratelli.
«Sono riconciliato con quegli eventi e per me quella vicenda è conclusa», ha ribadito padre Jalics. L’altro religioso che era con lui, Orlando Yorio, intanto è morto per cause naturali. «Dopo la nostra liberazione – racconta padre Franz – lasciai l’Argentina. Solo anni dopo ebbi la possibilità di parlare di quegli avvenimenti con padre Bergoglio, che nel frattempo era stato nominato arcivescovo di Buenos Aires. Dopo quel colloquio abbiamo celebrato insieme una Messa pubblica e ci siamo abbracciati solennemente». Un gesto commovente, volutamente compiuto davanti a migliaia di fedeli, perché le calunnie potessero essere fermate.
«Dal 1957, ho vissuto a Buenos Aires. Nel 1974 – ha scritto il gesuita in una breve memoria in tedesco –, mosso dal desiderio interiore di vivere il Vangelo e far conoscere le condizioni di terribile povertà, con il permesso dell’Arcivescovo Aramburu e dell’allora padre Jorge Mario Bergoglio, ho vissuto con un confratello in una “favela”. Da lì abbiamo comunque proseguito nel nostro insegnamento all’Università».
I guai per i due padri di frontiera arriveranno molto presto. «La giunta militare ha ucciso circa 30mila persone, guerriglieri della sinistra come anche incolpevoli civili. Noi due nella favela non avevamo contatti né con la giunta né con la guerriglia». Tuttavia, «per la mancanza di informazioni e per false informazioni fornite appositamente, la nostra posizione era stata fraintesa anche nella Chiesa». Argomento, questo, poi usato dai detrattori di Bergoglio per additarlo tra i complici delle torture. «In quel periodo – ricostruisce padre Jalics – abbiamo perso i contatti con uno dei nostri collaboratori laici, il quale si era unito alla guerriglia». Alcuni mesi dopo il ragazzo venne arrestato e dopo «il suo interrogatorio da parte dei militari della giunta, avvenuto nove mesi più tardi, questi ultimi hanno appreso che aveva collaborato con noi. Per questo siamo stati arrestati, supponendo che anche noi avessimo a che fare con la guerriglia».
Una via d’uscita sembrava imminente: «Dopo cinque giorni, l’ufficiale che aveva condotto l’interrogatorio, si è congedato con queste parole: “Padri, voi non avete colpe e mi impegnerò per farvi tornare nei quartieri poveri”. Nonostante quell’impegno restammo incarcerati, per noi inspiegabilmente, per altri cinque mesi, bendati e con le mani legate».
È a questo punto che vengono confezionate ad arte le accuse contro il futuro Papa. «Non sono in grado di prendere alcuna posizione sul ruolo di padre Bergoglio in quei fatti», dice padre Jalics che da allora si è disinteressato a ricostruire quel che accadde. «A papa Francesco auguro la ricca benedizione di Dio per il suo ufficio».
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