mercoledì 12 febbraio 2014
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Da molti anni soffre di una grave forma di depressione. Da poco poi gli è stata diagnosticata la spondilite anchilosante, una malattia degenerativa che tende a bloccare le articolazioni. Padre Aldo Trento, 67 anni, bellunese, missionario della Fraternità San Carlo, dice che adesso, quando cammina, avverte il suo stesso corpo pesante «come un blocco di marmo». Eppure è in partenza per Asunción, in Paraguay, dove nella parrocchia di San Rafael ha fondato una casa per malati terminali, un orfanotrofio, una scuola per 200 bambini, un ospizio per vecchi, una casa per ragazze madri e altro ancora. E non vede l’ora di tornare, padre Aldo, dai suoi bambini. Come se la malattia non bastasse a prevalere su un fuoco di passione per il prossimo, che, si direbbe, lo divora. Padre - gli domandiamo - tutti noi temiamo e cerchiamo di evitare in ogni modo la malattia e la sofferenza. Lei, che queste due compagne le conosce e le frequenta, ritiene che possa esserci, dentro la sofferenza, un bene? Lui, seduto a un tavolo in una parrocchia milanese, il viso un po’ gonfio per i farmaci, e stanco, al mattino, per via del fuso orario sudamericano che è ormai il suo: «Forse – spiega – può suonare strano dirlo in questo Occidente distratto e cinico, eppure la sofferenza per l’uomo è una grande risorsa, capace di risvegliare una potente domanda di infinito. Perché vede – continua guardandoti con i suoi occhi chiarissimi – c’è un equivoco in cui io mi imbatto spesso, anche fra cristiani. Sento dire da tutti che "la vita è bella", ma io non sono così d’accordo. Vada a dirlo alle mie bambine di Asunción, violentate a sette anni, che la vita è bella, o a un ragazzo moribondo di Aids. La vita, può essere terribile. È bella, solo se ci sappiamo accompagnati da Cristo. E la positività della malattia sta proprio nella apertura al Mistero. Finché non si sperimenta la sofferenza invece spesso fra noi si instaura una menzogna, una omertà sul dolore e sulla morte - come una collettiva censura». «Se ripenso alla mia vita – continua Trento – mi rendo conto che il dolore in realtà è stato la risorsa più grande. Anche se lo capisco adesso, che ho 67 anni. Perché da giovane, quando ero depresso e incapace di fare qualsiasi cosa e mi dicevano : affidati alla Madonna, io non capivo. Ora vedo, ora riconosco la Madonna ausiliatrice, la sua mano materna. Un tempo, no». Dunque nel dolore c’è una positività. Ma si spieghi meglio, padre: concretamente che cosa ci si fa, con il dolore? Sorride: «Per rispondere a questa domanda dovrei portarla a Asunción e farle condividere la storia della mia gente, dei malati, dei bambini..» Provi a spiegarmi lo stesso: dal dolore, quasi fosse materia, una sostanza chimica, che cosa si può trarre?Il dolore, nella compagnia di Cristo, diventa amore per chi soffre come te; diventa una urgenza di abbracciare chi soffre come te. Come le ho detto io non vedo l’ora di tornare a casa, dove mi stanno aspettando. La vera gioia per me è nell’abbracciare i miei malati e i miei bambini. E la morte? Alla morte lei come guarda? Io oggi guardo alla morte con speranza, perché sono certo che ci attende una vita incomparabilmente più felice  Ma perché, potrebbe dirle con rabbia un malato cronico, paralizzato, o inguaribile, dobbiamo portare sulle spalle tutto questo dolore? Dobbiamo portarlo, per stare accanto a Cristo nel suo cammino verso il Golgota. Io almeno avverto in me il dovere di essergli compagno, nel portare la croce. (Se a reggere quel peso, ti viene in mente mentre ascolti padre Trento, fosse tuo figlio, non ti verrebbe forse istintivo togliergli dalle spalle la croce, sgravarlo un momento da quella atroce oppressione?) Lei ha una fede che pochi hanno. Ma cosa dire a un malato quando è incurabile, e non ha questa fede? «Non c’è altro da fare che abbracciarlo. Come dice il mio amico psichiatra Eugenio Borgna: l’unica terapia, è abbracciare. Io dal fondo della depressione più nera sono rinato, quando don Giussani mi ha preso con sé e abbracciato. Per questo ora posso a mia volta abbracciare la mia gente, a Asunción». E non vede l’ora, padre Aldo, di tornare a casa. Di lasciare questo ricco Occidente, dove sul dolore e sulla morte vige, dice, «una profonda corale censura».
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